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IL VALORE DELLA CULTURA CLASSICA

Ha ancora senso affaticarsi su testi scritti in un linguaggio scarsamente comprensibile, con strutture sintattiche molto lontane dalla agilità e stringatezza oggi diffuse con i sistemi di comunicazione elettronica; o immedesimarsi in concetti distanti, spesso superati e comunque non sempre in sintonia con le più diffuse sensibilità odierne?

Sono queste le domande alla base del sempre rinnovato attacco di tutti coloro i quali ritengono qualcosa di superfluo, di dispensabile, i classici e in generale la cultura umanistica in cui questi sono per lo più rappresentati (non bisognerebbe però dimenticare che ci sono “classici della scienza” ancora oggi assai utili da rileggere, per l’umanista e per lo scienziato). Un fardello “inutile” se confrontato ai saperi che si ritengono immediatamente produttivi perché capaci di stimolare, crescita, produttività, innovazione, mantra dell’odierna cultura. Ne viene che siano da marginalizzare gli studi e le scuole che ad esse danno un qualche peso, come il Liceo classico, la cui stessa esistenza è da molti indicata come un esempio dell’arretratezza culturale e scientifica dell’Italia.

I classici sono in sostanza ritenuti opere vetuste, volumi da riporre in qualche polverosa scaffalatura, utili semmai a imbellettare auguste biblioteche di rappresentanza, magari nei negozi di mobili; non strumenti del pensiero ancora significativi per l’uomo d’oggigiorno. Ai classici si attribuisce semmai il solo valore di essere una testimonianza del passato, il ricordo nostalgico di un “come eravamo” e non certo una piattaforma per proiettarsi nel futuro, scintillante dei prodotti della tecnologia moderna, guidato da sempre più potenti sistema di intelligenza artificiale e orientato solo al consumo voluttuario e di intrattenimento.

Ma questa è una visione superficiale e per molti aspetti parziale. In effetti i classici rappresentano un momento fondamentale dello sviluppo del pensiero e della cultura umana, un luogo in cui si sono addensati, in modo efficace ed esemplare, i pensieri di un’epoca, l’esperienza di una umanità, ma anche l’originalità di chi ha dissentito, di chi si è dimostrato “eretico’”, così annunciando le future eresie e la futura civiltà. I classici sono tali perché stanno su un angusto crinale: assorbono gli umori del tempo, senza i quali non potrebbero nemmeno essere concepiti, e guardano al di là del loro tempo, come chi sta sullo spartiacque di una montagna e da una parte vede la terra che ha lasciato, dall’altra il paesaggio che potrà percorrere, ancora nebbioso, ma affascinante e suggestivo. Questo viene indicato dai classici ai loro lettori, che non sono solo quelli dell’epoca in cui l’autore è vissuto, ma tutti coloro che li leggono anche nei secoli successivi, perché il classico è tale quando è in grado di parlare a ogni uomo di ogni tempo. Ancora oggi andiamo tutti – e vengono i turisti di tutto il mondo – ad ammirare le rappresentazioni classiche delle tragedie di Euripide, Sofocle, Eschilo, messe in scena nel magnifico teatro greco di Siracusa. Cosa ci dicono queste tragedie? Sono forse inutili per chi va ad ascoltarle? A cosa è dovuto il loro fascino? Esse, appunto in quanto “classici”, rappresentano passioni, sentimenti, idee che ancora oggi sono coinvolgenti, pur esprimendosi in un linguaggio diverso, evocando leggende e miti ormai non più creduti, appartenenti a una storia lontana e spesso misconosciuta dagli stessi spettatori. Solo gli stupidi o gli incolti non si rendono conto di ciò; solo chi non li ha mai letti, ritiene che i classici siano del tutto inutili, così come solo chi non ha mai letto un libro di filosofia pensa che essa sia un vano sproloquio.

Ma proprio questo obiettivo è stato dimenticato negli ultimi anni, con le disastrose riforme che hanno interessato tutto il comparto educativo, governate dall’ossessione dello studio produttivo, profittevole, capace di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, invitanti a una specializzazione precoce, implementando l’alternanza “scuola-lavoro”, creando curricula universitari professionalizzanti, sempre più specialistici e quindi tagliando tutte le discipline “superflue”, in primo luogo quelle umanistiche. Che posto potrebbero avere i classici in questo desolante panorama? L’attuale sistema educativo sembra non avere più interesse alla formazione dell’uomo, ma solo del produttore, dell’operaio, del tecnico, del professionista, dell’esperto, del “competente”. La personalità umana nella sua integralità scompare dietro le categorie economicistiche, dietro la professione che ciascuno deve occupare, l’utilità che bisogna assicurare alla società.

È questo il sistema educativo che ha sposato anche nel vocabolario il più bieco aziendalismo: il preside diventa “dirigente”, gli studenti non devono acquisire conoscenze ma “crediti” (o subire “debiti”), non sapere ma “competenze”, i frutti del lavoro scientifico diventano “prodotti” e così via. Intanto la scuola delle tre “i” proposta da Berlusconi – inglese, internet, impresa – sembra aver fatto passi da gigante, in una continuità di governi e ministri che si affaticano ad orientare le scelte educative in base al “mercato”. E si dimentica che le aziende più dinamiche e innovative non hanno bisogno di automi specializzati, bensì di gente creativa, di mentalità flessibile, capace di adattarsi ai vari ruoli, che imprevedibilmente e rapidamente cambiano: si preoccupano di assumere le persone più preparate, per poi formarle all’interno dell’azienda. Ma in Italia, le aziende ormai in decrescita tecnologica, a cui capo v’è spesso una classe imprenditoriale incapace e impreparata (tra le più ignoranti dei paesi sviluppati), mirano a scaricare sulla scuola e sull’università le spese che dovrebbero sostenere in proprio, per la preparazione del proprio personale, nella illusione poter così ottenere un “prodotto finito”, chiavi in mano pronto all’impiego. E si pensa che la disoccupazione giovanile sia dovuta al fatto che i giovani non siano preparati per il mercato del lavoro, non nel fatto che la produzione industriale sia stagnante, l’innovazione latita e l’economia non regge più le sfide di un mondo globalizzato.

Tuttavia alcuni aspetti della recente cultura di governo sono anche il riflesso dello spirito dell’epoca. La formazione ha bisogno di tempi lunghi e deve educare i giovani non solo al “coding” o all’economia aziendale, ma soprattutto a quei valori e abiti indispensabili affinché una società possa funzionare: il rispetto della giustizia, la solidarietà umana, la tolleranza, il senso dell’onestà, la pratica della democrazia. È quel tipo di educazione e quel genere di conoscenze che – come ammoniva Einstein – è tutto ciò che rimane all’uomo adulto dopo che si è dimenticato quanto ha appreso da studente. Studiare Platone, Aristotele, Spinoza o Kant, come anche Dante o Boccaccio, non serve solo a ricordarne e riutilizzarne gli argomenti, ma soprattutto a creare un abito di rigore nel ragionamento, nell’abituare la mente a esplorare ipotesi diverse, a non abbandonarsi alla falsa naturalezza delle opinioni e delle culture, assunte come eterne e immutabili. E allo stesso modo, dimostrare i teoremi della geometria euclidea o quelli di analisi, non serve perché domani saranno utilizzati nella professione o perché poi saranno ricordati all’università: qui si ricomincia ex novo e nella vita adulta è oro che cola se ancora si riescono a fare le divisioni con la virgola. No, tutto ciò serve perché dimostrando si impara a dimostrare e si apprende in modo naturale e osmotico a svolgere un argomento deduttivo e a riconoscere quando un ragionamento è corretto o meno. Come sosteneva Galileo, «Il sonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s’impara dalla continua lettura de’ poeti; il dipignere s’apprende col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici». Non quindi arie e discorsi astratti sulla logica, del tutto inutili se non associati alla logica concreta, incarnata nei ragionamenti reali, quelli fatti da matematici e filosofi, innanzi tutto. È così che si edifica un “abito mentale” che poi si applicherà sempre nella vita, anche quando si ragiona di politica. Sicché è inutile, come alcuni vanno predicando, fare più matematica nel senso di estendere il programma con nuove nozioni; è importante invece fare buona matematica, far ragionare con la matematica i ragazzi, così come lo si deve fare con la filosofia o con la letteratura. A questo devono servire i classici.

Ma questi hanno anche una funzione suppletiva. Così come da un computer e dal suo software non si ricava nulla se non vi si immettono dei dati, delle informazioni. Come la recente esplosione dell’Intelligenza Artificiale ne è prova, con gli anni di “addestramento” necessari per metterla in grado di simulare il comportamento umano, così anche la mente logicamente più istruita e formata a nulla di originale giunge se in essa non sono immessi dei dati, che in questo caso sono idee, conoscenze, esperienze: quelle che altri uomini hanno avuto e che sono state depositate in monumenti materiali e cartacei, conservati in biblioteche e siti culturali. Il più bravo dei matematici finirà per ragionare a vuoto – o esprimere banali opinioni, luoghi comuni diffusi nell’ambiente in cui vive – quando va al di là del proprio campo specialistico, se non si nutre di idee. Se insomma non si impregna di tutta quell’esperienza umana che è consegnata nei classici e nella cultura in genere, in quella umanistica in particolare. Ma per far ciò deve avere l’umiltà di riconoscere che anche in letteratura, in filosofia o nell’arte v’è un rigore, un metodo di studio, una tradizione, uno “specialismo” che bisogna riconoscere, conoscere e rispettare; che non si può ignorare senza poi pagarne pegno; bisogna avere l’umiltà, appunto, di mettersi a studiare, leggere, informarsi e quindi lasciarsi saturare dell’umanità e dei suoi pensieri, passati e presenti. Ma ciò può avvenire solo nel processo dell’educazione, alla scuola come all’università. Dopo risulta per i più troppo tardi.

Purtroppo ai contenuti disciplinari, allo approfondito studio e alla lettura meditata, che ha suoi tempi incomprimibili, alla centralità del docente e dell’insegnante, che con la sua cultura e preparazione ha la capacità di rendere vivo il proprio insegnamento, si è sostituita una eccessiva concentrazione sulla didattica, sui metodi di insegnamento, sulle tecniche di trasmissione dei saperi, con tutti i supporti informatici che sono via via diventati di moda e per i quali si spendono, spesso sconsideratamente, fior di quattrini; ed ora, con la mania dell’intelligenza artificiale la situazione tenderà a ulteriormente aggravarsi. Per una vera, buona scuola non sono tanto necessarie le lavagne elettroniche e i programmi di digitalizzazione, ChatGPT o DeepSeek, ma innanzi tutto insegnanti preparati, motivati, appassionati della propria materia, che impieghino il loro tempo soprattutto a studiare, a preparare le proprie lezioni, a leggere ed apprendere, senza essere distratti da eccessivi impegni burocratici, da inutili corsi di aggiornamento o da ammaestramenti ex cathedra sulla didattica, perché, come ha avvertito Tadeus Kotarbiński – grande esponente della filosofia analitica e scientifica polacca nel criticare certi suoi colleghi troppo attenti a perfezionare i propri armamentari logico-analitici – si può correre il rischio di affilare continuamente le cesoie e poi non sapere cosa tagliare.

Quando detto per la scuola è evidentemente anche valido – e direi a maggior ragione – per l’università: il docente è sempre più distratto dai suoi principali obiettivi – ricerca e didattica – dalle sempre più pressanti esigenze burocratiche a cui è sottoposto. Ormai gran parte dell’attività di un docente universitario è dedicata a riunioni e compilazioni di moduli, schede, report, sillabi e via dicendo, che nulla cambiano perché restano delle mere esercitazioni cartacee, il cui adempimento è spesso inutile e privo di senso; o peggio, cade sotto le tagliole di un Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) che sembra fatto apposta per scoraggiare la ricerca meditata e stimolare solo la produzione cartacea.

Il richiamo ai classici, dunque, non è che un modo per continuare una battaglia per la cultura intesa innanzi tutto come maturazione e progresso interiore, e non mera fungibilità produttivistica. E il successo di tali tematiche presso un largo pubblico – come si vede nei vari “festival” che vengono organizzati – testimonia che c’è ancora una società sensibile e attenta, che intende e capisce il valore dell’educazione umanistica e rifiuta la stortura aziendalistica; che resiste a quanto sta avvenendo nell’educazione, in Italia ma anche nel mondo, in cui domina ormai quasi un pensiero unico. Ed è triste che tutto ciò avvenga innanzi tutto in Europa, cioè nella patria e nel luogo di origine della cultura occidentale. Ma come può l’Europa difendere la propria identità culturale se non coltivandola nelle scuole, facendone il perno del proprio sistema educativo?