Aldous

Biblioteca del coraggioso mondo nuovo

KAFKA, SEMPRUN E BORGES

Il 2024 è l’anno di Franz Kafka. La sua morte, avvenuta il 3 giugno di cento anni fa, impone la lettura o la rilettura di alcuni suoi libri fondamentali. Comincio con la «Lettera al padre», UE Feltrinelli. Rileggo pure la Postfazione. È del 1957. È di Georges Bataille. L’“incipit” mi sorprende: «Poco dopo la guerra un settimanale comunista, “Action”, aprì un’inchiesta su un argomento inatteso: “Dobbiamo bruciare Kafka?” era il tema».

Perché i comunisti francesi si ponevano quella domanda (molto kafkiana, peraltro, se Kafka in una lettera-testamento del 1923 al suo amico Max Brod affidò il compito di infliggere quell’autodafé alle sue opere)? Perché Kafka, scrive Bataille, «considera lo scopo in sé stesso come un’illusione», mentre per il comunismo, «che è l’azione per eccellenza, è l’azione che modifica il mondo». Per esso, «l’attività presente non ha senso se non in uno scopo prefisso: questo mondo che bisogna cambiare».

La risposta indiretta all’apocalittica domanda su cui si arrovellavano i comunisti si può leggere nel libro, imprescindibile, «La scrittura o la vita», Guanda 1996 (ed. orig. 1994), dello scrittore e politico ispano-francese Jorge Semprún (1923-2011), il cui centenario della nascita l’anno scorso è filato via senza clamore. In quel libro, che Paolo Mauri, nell’Introduzione, definisce «testimonianza di ciò che fu Buchenwald, incubo delle sue notti», Semprún fa però i conti non solo con l’inferno concentrazionario approntato dai nazisti, ma anche col comunismo, cui da giovane aveva aderito (e che gli era costato la deportazione dalla Francia di Pétain a Buchenwald). Ammirevole la confessione: «La storia di questo secolo è stata dunque segnata a ferro e a fuoco dall’illusione criminale dell’avventura comunista, che ha suscitato i sentimenti più puri, gli impegni più disinteressati, gli slanci più fraterni, per sfociare poi nello scacco più sanguinoso, nell’ingiustizia sociale più abietta e opaca della Storia» (cap. 9, “Oh stagioni, oh castelli…”).

Dopo una riflessione – di sublime grandezza nella sua fulminea concisione – sul valore aggiunto, conoscitivo ed etico, della letteratura rispetto alla realtà nuda e cruda: «La realtà ha spesso bisogno di invenzione, per diventare vera. Cioè verosimile. Per conquistare la convinzione, l’emozione del lettore», Semprún racconta come riuscì a sfuggire all’“imbecillità comunista”: «Più tardi, quando mi è capitato di analizzare le ragioni che mi hanno impedito di soccombere all’imbecillità comunista – di soccombervi totalmente, almeno –, mi è sempre parso che la lettura di Kafka fosse una di esse, e non tra le minori. Non soltanto la lettura di Kafka, certo. La lettura in generale. Certe cattive letture in particolare. Tra cui quelle di Franz Kafka.

Non è per un caso né per un capriccio dispotico che la lettura di Kafka è stata proibita, o almeno resa sospetta, o praticamente impossibile per mancanza di edizioni delle sue opere, durante tutto il periodo stalinista in Cecoslovacchia…

In effetti la scrittura di Kafka, attraverso le vie dell’immaginario meno enfatico, più impenetrabile a forza di trasparenza accumulata, riporta incessantemente nel territorio della realtà storica o sociale, raschiandola, rivelandola con implacabile serenità.

Nato nel 1883, anno della morte di Karl Marx, morto nel 1924, anno della scomparsa di Lenin, Kafka non tenne mai esplicitamente conto delle realtà storiche dell’epoca. I suoi diari sono a questo riguardo di una vertiginosa vacuità: nessuna eco del rumore né del furore del mondo sembra risuonarvi. Eppure … tutti i suoi testi, di fatto, riportano allo spessore, all’opacità, all’incertezza, alla crudeltà del secolo, che chiariscono in modo decisivo. E non, o non solo, perché Kafka raggiunge, nella modestia sconcertante della sua impresa narrativa, il centro stesso, metafisico, della condizione umana, la sua verità senza tempo.

L’opera di Kafka non è senza tempo in virtù di una sua supposta sospensione al di sopra della confusione del tempo; ha valore e intenzione di eternità, che è un’altra cosa. Ma appartiene certamente a questo tempo, è impensabile al di fuori di questo tempo, che tuttavia essa trascende incessantemente da ogni parte…

Così, per tutto quel periodo, le finzioni di Franz Kafka mi riportavano alla realtà del mondo, mentre d’altra parte la realtà costantemente invocata nel discorso teorico o politico del comunismo era solo una finzione, senza dubbio oppressiva, talvolta asfissiante, ma sempre più sciolta da qualsiasi vincolo concreto, da qualsiasi verità quotidiana» (pp. 252-253).

Mentre leggevo queste due pagine, mi affiorava alla memoria una lettura lontana, che non riuscivo a collocare nel tempo, di alcune pagine di Borges. Era un ricordo, preciso, anche se in parte sbiadito, di concetti affini espressi dal Grande Cieco argentino durante una serie di interviste rilasciate a Osvaldo Ferrari, poi raccolte nel libro «Conversazioni», Bompiani 1986.

Borges sostiene, in sostanza, che «se uno legge altri grandi scrittori, deve continuamente fare quello che in inglese si dice “make allowances”, in spagnolo sarebbe ‘fare concessioni’. Bisogna pensare: questo è stato scritto nella tale epoca, occorre tener presenti molte circostanze». E fa l’esempio dei drammi di Shakespeare. Ma lo stesso si può dire «per tutti gli scrittori; bisogna pensare: hanno scritto nella tale epoca, nelle tali condizioni, bisogna collocarli nella storia della letteratura. Così si possono perdonare o tollerare certe cose. Ma il caso di Kafka è diverso: credo che Kafka possa esser letto astraendo dalle sue circostanze storiche… E forse sarà letto in futuro e non si saprà con certezza che scrisse all’inizio del secolo Ventesimo, che fu contemporaneo dell’espressionismo e della prima guerra mondiale. Tutto questo può essere dimenticato. La sua opera potrebbe essere anonima, e forse col tempo meriterà di esserlo. È il massimo cui un’opera può aspirare, e che pochi libri raggiungono… ormai l’opera di Kafka fa parte della memoria dell’umanità».