ŽDANOV O DELLA SUPERIORITÀ (IM)MORALE
La chiave per comprendere la sottocultura che va sotto il nome di politically correct, con gli annessi dispositivi della cancel culture e del wokismo, è senz'altro la sudditanza all'egemonia culturale d'oltreoceano, sostenuta da una forte matrice identitaria radicata nel puritanesimo protestante e nel più profondo calvinismo. Nonostante la crisi in cui versa il progetto economico-finanziario della globalizzazione, gli effetti che ha generato nelle mode culturali sono ancora tangibili e più stringenti che in passato, anche se il compito di conservare la supremazia statunitense ha passato la mano allo sforzo bellicista, naturalmente a spese di altri paesi e lontano dalla geografia fisica della democraticissima nazione che ha sempre molto da insegnare, specialmente in superiorità etica.
Da una simile prospettiva prende avvio l'ultimo libro di Alberto Giovanni Biuso, da poco uscito per Algra Editore, "Ždanov. Sul politicamente corretto" nel quale l'autore percorre i tratti di tale contesto culturale mostrandone con critica passione i sintomi, i presupposti impliciti, la pervasività, le sostanziali contraddizioni ma anche la possibilità di uscirne attraverso un atto coraggioso di libertà che è prima di tutto libertà di pensiero e di parola. Con la scelta della globalizzazione come sfondo naturale del politicamente corretto, Biuso ne esplicita anche la connotazione ideologicamente trasversale, rappresentata da "un bizzarro miscuglio di alcune espressioni della cultura 'di destra' nelle sue componenti individualistiche e liberiste e della 'cultura di sinistra' nelle sue componenti altrettanto individualistiche che tendono a trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi 'desideri' individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei 'diritti naturali'." (p. 15)
Del politicamente corretto, per inciso, esiste anche una versione made in Italy che connette opportunamente il piano domestico a quello globale. Il collante lo fornisce l'idea della superiorità etica della sinistra, scaturita per slittamento da una distorta interpretazione dell'analisi politica di Berlinguer, passata alla storia come la "Questione Morale" (1981). Una parabola che dall'intransigenza e la coerenza morale del partito ai tempi della prima repubblica ha trovato il punto di caduta - è il caso di dire - nella fonetica.
Tornando alla trasversalità del politicamente corretto, tutt'altro che bipartisan, si rilevano almeno due aspetti da tenere in sottotraccia alle argomentazioni che l'autore sviluppa in modo articolato e ampio: in primo luogo, che "il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue tra di loro le teorie e le pratiche politiche, non certo le obsolete categorie di destra e di sinistra" (p. 26); in secondo luogo, che il politicamente corretto sancisce una distanza definitiva dal giusnaturalismo, e dunque dal diritto fondamentale di tutte le libertà, riconosciuto a ciascun essere umano in quanto tale e su cui si fonda l'idea moderna di stato. Sebbene, fin dall'origine, la natura borghese abbia esposta tale dottrina politica al formalismo e all'adattabilità a qualunque autoritarismo, essa ha tracciato un orizzonte comune al corpo sociale più ampio del particolarismo che connota le comunità e i gruppi fortemente identitari la cui coabitazione, di norma, oscilla tra l'incomprensione, l'indifferenza reciproca o la conflittualità più o meno conclamata.
Retroterra ideologico borghese, matrice culturale wasp, spiccato anarco-individualismo di stampo liberista e finanziarizzazione, che è l'altro nome della globalizzazione, hanno ingenerato nelle formazioni politiche progressiste, angloamericane e a seguire europee, da un lato l'orientamento a cavalcare l'onda dei diritti umani per compensare la mancata realizzazione della spinta rivoluzionaria, dall'altro a radicalizzare il processo di liberalizzazione dei costumi, quale magro lascito del '68. Nei lunghi e tortuosi percorsi attraverso i quali le ideologie si propagano e si modellano a seconda delle circostanze - di solito strutturali - il politicamente corretto sostiene a parole i sacrosanti princìpi di emancipazione, di autodeterminazione e di impegno alla lotta contro ogni focolaio di ingiustizia; ma questa è solo la patina superficiale che nasconde l'idea adorniana dell'assenza di ogni teoria sul mondo, sostituita dallo psicologismo sentimentale e dalla mozione degli affetti. Si arriva così, nei fatti, ad assecondare la convenienza del capitale a rimuovere le questioni più scomode: "Invece che 'affiancarsi' alla lotta di classe, la lotta contro le discriminazioni 'ha sostituito' la lotta di classe, annullando in questo modo il legame tra la sinistra e le sue strutture sociali, le classi, di riferimento. La lotta contro le discriminazioni formali è infatti semplicemente liberale, come le tesi di Friedrich von Hayek ben testimoniano." (p. 29) Biuso perciò pone un forte accento sulla responsabilità di larga parte degli intellettuali di sinistra, che anziché porsi come soggetto collettivo capace di intercettare le istanze del corpo sociale e di rielaborarle in una visione di senso, ha promosso una controrivoluzione che un altro acuto osservatore come Marco D'Eramo, descrive con altrettanta schiettezza: "Hanno lanciato una sorta di guerriglia ideologica. Hanno studiato Gramsci anche loro e hanno agito per riprendere l'egemonia sul piano delle idee. Partendo dai luoghi dove le idee si generano, ovvero le università. A partire dal Midwest americano, una serie di imprenditori ha cominciato a utilizzare fondazioni per finanziare pensatori, università, convegni, pubblicazioni dei libri. Un rapporto del 1971 della Camera di Commercio americana lo scrive chiaramente: 'bisogna riprendere il controllo e la cosa fondamentale è innanzi tutto il controllo sulle università'. Da imprenditori, hanno trattato le idee come una merce da produrre e vendere." (“La controrivoluzione delle élite di cui non ci siamo accorti: intervista a Marco D’Eramo”, L’indipendente, 1 novembre 2023).
Un dispositivo efficace a diffondere la consuetudine del politically correct consiste nella manipolazione del linguaggio con cui si riesce a separare il nome dalla cosa. Questa tattica ha più di una connessione con la propaganda, senonché il politicamente corretto agisce su meccanismi psicologici più sottili e obliqui, come il senso di colpa e il timore della riprovazione sociale, ma non per questo meno tossici per la salute della democrazia di quanto lo sia l'obbedienza imposta con la forza. Non sembri perciò un'iperbole quando Biuso rileva la violenza espressiva nella tendenza, del wokismo in particolare, a destrutturare la lingua con gli espedienti dello schwa, degli asterischi, degli eufemismi e delle perifrasi. Tutt'altro che banale, tale tendenza, spesso utilizzata con disarmante candore, in realtà predispone al revisionismo semantico e introduce divieti, tabù e rimozioni funzionali alle pratiche della cancel culture.
Non deve quindi stupire se dal dibattito pubblico è scomparsa la parola 'sfruttati' "sostituita da termini quali 'esclusi, sfavoriti, ultimi' e soprattutto 'discriminati'. Mentre lo sfruttamento implica la critica a un ben preciso sistema produttivo e rapporto di produzione, i termini psicologici e sociologici che lo hanno sostituito rimandano invece a una vaga e quindi innocua forma della morale (p. 18). E di esempi di manipolazione ne possiamo aggiungere altri ripresi dalla cronaca recente, come il ritenere blasfemo l'accostamento fra genocidio e Israele o definirlo grottescamente quasi-genocidio, per ribadire, a memoria futura, ciò di cui non si può e non si deve parlare; o quando si grida all'antisemitismo, come se esistesse un unico popolo semita, per occultare o tacitare l'opposizione alla brutale violenza del sionismo; e del resto si discetta con artificiosi distinguo tra protesta e censura per indicare agli sguaiati contestatori un galateo comportamentale politically correct. "In chiave teoretica, la contemporaneità costituisce dunque un passaggio dalla centralità dell'ontologia, ciò che è e che si è, all'etica, ciò che si deve essere pena il mancato diritto ad esistere." (p. 75)
Di questo moralismo sociale, la teoria gender rappresenta, nella lettura che ne dà Biuso, la manifestazione a largo spettro della cancel culture, a partire dalla negazione dell'identità sessuata e dell'essere umano come costitutivamente naturale, per sostituire a tali evidenze "una ontologia flussica, che vede nella corporeità un abito volontaristico e non una necessità materica" (p. 109). Nonostante l'impeto argomentativo e il tratto deciso del giudizio, non sfugge a Biuso che la galassia femminista e delle minoranze sessuali non si caratterizza per compattezza e linearità di pensiero nella loro evoluzione teorica. Molti sono i distinguo e le divergenze di vedute dal momento che la società complessa e globalizzata pone questioni non dirimenti in modo univoco, che necessitano di dialogo e di comprensione storico culturale, per esempio, il dibattito sulla condizione femminile nel mondo islamico e sull'usanza del velo. Ciò deporrebbe a favore del rifiuto da parte dei sostenitori della denominazione di Gender Theory, preferendo l'espressione gender studies per indicare l'insieme di approcci disciplinari e di ricerche sulla costruzione culturale delle identità maschile e femminile e contro l'accusa di negare in modo grossolano la differenza biologicamente sessuata della specie umana. Tuttavia, anche considerando il gender come un dispositivo concettuale ed euristico, non normativo, e volendo liberare l'idea gerarchica dei sessi dall'apparente naturalità, difficilmente se ne possono ignorare alcune delle assunzioni di fondo e sottovalutare le conseguenze più macroscopiche.
La scissione sesso/genere, con la priorità attribuita alla dimensione psicologica afferma allo stesso tempo la svalutazione del dato naturale di cui la corporeità è la prima manifestazione; un'idea che contrasta con la visione olistica della persona, della sua unità psicofisica appunto, rivendicata anche da gran parte dei movimenti di emancipazione femminile, in antitesi alla tradizione dualistica e patriarcale della cultura occidentale. Con le parole più esplicite di Biuso: "Il sentirsi maschi in un corpo di femmina e femmine in un corpo di maschio è certamente legittimo e anch'esso naturale ma questo non significa che la persona non abbia e non costituisca uno statuto ontologico che è maschile o femminile, senza incertezze" (p. 116) Senonché la radicale ostilità per il corpo sessuato, finisce in primo luogo per dissolvere la differenza nell'uniformità: "La natura filosoficamente e socialmente distruttiva del politicamente corretto sta esattamente qui: nel tentativo di imporre ovunque il Medesimo, come se ogni Differenza fosse già solo per questo Discriminazione. Il luogo nel quale tutto questo si esprime con grande chiarezza è la questione dei sessi e del genere." (p. 118). In secondo luogo la scissione sesso/genere ripropone uno statuto antropocentrico in aperta contraddizione con la questione ecologica e della tecnica "l'antropocentrismo (...) diventa tecnocentrismo, e ritiene che l'umano possa garantirsi ancora il dominio sul pianeta soltanto tramite una tecnicizzazione della propria identità" (p. 108)
È un individuo in sé scisso, autoreferenziato e sradicato dal legame dialettico con ogni tradizione che, nelle parole di Biuso, ricorda la figura stirneriana dell'Unico a cui nessuna cosa sta a cuore più di se stesso: "una delle tante tendenze del liberismo capitalistico, una delle molte espressioni del self-made man, che costruisce da sé se stesso, la propria identità e il proprio mondo, una delle numerose tendenze dell'antropologia liberale che ha come fondamento e insieme come obiettivo l'intercambiabilità integrale delle persone, la sostituzione del legame identitario con una atomizzazione che disgrega" (p. 117)
Da qui si comprende forse con maggiore chiarezza come in definitiva la questione del gender e più in generale dell'estremismo culturalista del politicamente corretto hanno sostituito la lotta per i diritti sociali, stralciati dal programma di ogni formazione politica in cambio della sopravvivenza nell'epoca dell'ipocrisia neoliberista. Così scriveva Mark Fisher nel 2020: "Il Castello dei Vampiri (il neoliberismo, ndr) si nutre dell’energia, delle ansie e delle vulnerabilità dei giovani studenti, ma soprattutto vive trasformando le sofferenze di particolari gruppi – più “marginali” sono, meglio è – in capitale accademico. Le figure più lodate del Castello dei Vampiri sono quelle che hanno individuato un nuovo mercato della sofferenza: chi riesce a trovare un gruppo più oppresso e soggiogato di qualsiasi altro sfruttato in precedenza si troverà promosso molto rapidamente tra i ranghi." (Mark Fisher, “Uscire dal castello dei vampiri”, in Chaosmotics, 13 novembre 2020).
Ricco di temi che fanno riflettere sulla condizione culturale del nostro tempo, il libro di Biuso è senz'altro espressione di un pensiero che non si lascia imbrigliare negli stereotipi e nel conformismo di qualsivoglia connotazione. Le parole finali dell'autore, che suonano come una dichiarazione d'amore, ne sono la sintesi efficace. Ricordano che l'Europa è il luogo dove è nato il pensiero critico e che è stata il crocevia di culture, linguaggi e tradizioni differenti. Il conflitto e la violenza non le sono estranee come pure l'oblio e la subalternità imposta a culture minoritarie. E tuttavia il desiderio di seguir virtute e canoscenza, inscritto nel suo codice genetico, può ancora arginare la presunta superiorità morale e la colonizzazione delle anime imposte dal totalitarismo del politicamente corretto.