GRAEBER
Un intellettuale militante nel ventunesimo secolo è merce preziosa. L’intellettuale, abituato a procurarsi da vivere (allo stato brado) in un mondo, quello delle pratiche abituali della produzione culturale (scrittura saggistica, curatele ed editing, traduzioni, articoli, conferenze) dove il denaro non vi è mai stato o va scomparendo oppure (se ridotto allo stato di domesticità accademica) addestrato agli esercizi di produzione bibliometricamente misurati e ai rituali burocratici autovalutativi (pratiche il cui risultato sulla personalità dei partecipanti potrà essere misurato tra qualche anno) si fa fauna in via di estinzione o, quando sussiste, di fragile complessione e timida interazione con il mondo.
Restano ovviamente i produttori di narrative che santificano il sistema, ne cantano la giustezza e le magnifiche sorti. Ma senza la libertà interiore di pensiero ed esteriore di scrittura, con una produzione concettuale che si limiti a fare da voce fuoricampo che commenta la creazione capitalistica, consumistica, industrial-culturale aggiungendo “… e vide che era cosa buona”, parlare di intellettuali sarebbe certo fuori luogo e poco rispettoso della storia, per quanto non priva di contraddizioni e ambiguità, con cui essi vengono identificati.
Quando se ne incontra qualcuno che unisce a una robusta vena teorica una vena di altrettanto robusto interventismo e coraggio civile, diventa dunque quasi un dovere andarlo a conoscere più da presso. In questo caso il raro avvistamento ha purtroppo a che fare con uno studioso, David Graeber, che pochissimo tempo fa (nel 2022) ci ha lasciato nonostante l’età non lo facesse prevedere (era nato nel 1961). Ancora più spiacevole, per chi scrive, il fatto di averlo potuto apprezzare e conoscere solo da poco tempo, a partire cioè da quel Bullshit Jobs pubblicato da Garzanti nel 2018 e rilanciato dal giornalismo più banale perché attirato dal titolo, dalla formula facile, riassumibile e adatta a dibattiti e articoli un po’ oziosi. Il libro parlava dei lavori inutili, nominali, privi di senso di cui è piena la società contemporanea. Nonostante la banalizzazione di parte della ricezione avuta dal libro, già quel testo mostrava l’acutezza di Graeber nel muoversi in totale spregio a molte retoriche dominanti negli ultimi decenni: la santificazione del lavoro sempre da prendere sul serio (necessaria del resto per innescare la società dell’autosfruttamento di cui parla Byung-Chul Han), l’idea del lavoro parassitario statale a fronte del lavoro (vero) privato. Da buon antropologo Graeber (questa era la sua formazione e il suo inquadramento accademico) sapeva ragionare su categorie generali ma anche raccontare i casi individuali e trarre da essi tutto il possibile.
Solo più di recente però, quando Graeber era già morto, e incuriosito dalla sua biografia militante (si era ampiamente speso per Occupy Wall Street di cui era elemento di spicco), chi scrive si è avvicinato ad altre sue opere scoprendo un autore di rara sagacia e in grado di illuminare con coraggio la nostra epoca senza le remore di chi cerca una convivenza non conflittuale con il potere. In una raccolta di saggi pubblicato da Manni nel 2012 con il titolo, forse un po’ forzato, La rivoluzione che viene, Graeber illustra anticipatamente dinamiche che noi, un po’ più tardivi lettori del contemporaneo, abbiamo potuto vedere proprio in questi tre anni, quasi a proporsi come Virgilio per il nostro viaggio intellettuale nei gironi che progressivamente si stagliano davanti a noi: il girone pandemico, quello bellico-atlantista, quello eco-plutocratico eccetera. La raccolta di saggi di Graeber era uscita in inglese nel 2011 ma la prima edizione è greca del 2009 (in tempo per la crisi del debito). I saggi che la compongono però sono datati, nella loro prima uscita in rivista, tra il 2004 e il 2010.
Nonostante manchi quindi a Graeber una serie di eventi assai significativi per disegnare il quadro del tempo, la sua lucidità non ne viene indebolita. Ecco alcune preziose annotazioni. Innanzitutto Graeber invita il lettore a considerare l’enorme terrore che la protesta, quando non inquadrata e alimentata per inscenare una falsa dialettica (si pensi alle sardine e altre manifestazioni che urlano a gran voce quel che nessuno contesta: il clima è importante, la mafia è brutta, il razzismo è ingiusto eccetera), induce nel potere: «per quanto possa apparire strano, le classi dirigenti ci temono. Sembrano essere ancora tormentate dalla possibilità che, se l’americano medio fiutasse realmente ciò che stanno combinando, potrebbero finire appesi a degli alberi. A prima vista sembra poco plausibile, ma è difficile trovare un’altra spiegazione per il modo in cui vanno nel panico nel momento in cui si manifesta il seppur minimo segno di mobilitazione di massa» e aggiunge con amaro sarcasmo qualche riga più avanti, «di solito cercano di distrarre l’attenzione con la proclamazione di qualche guerra» (p. 21).
Una profonda diffidenza per il potere capitalistico attuale permea i ragionamenti di Graeber. A un certo punto, a proposito della crisi economica del 2008 ipotizza, sbagliando o forse meglio anticipando i tempi, che il gruppo di lavoro di cui faceva parte ipotizzava «che fosse dichiarata una crisi ecologica globale, seguita da una strategia di capitalismo ambientalista volta a riportare sotto la propria gestione i fondi sovrani, che stavano iniziando a sfuggire al controllo delle élite finanziarie» e concludendo come quella fosse, a suo dire, «la migliore strategia che si potesse adottare nella prospettiva della vitalità a lungo termine del sistema capitalista» (p. 8). Questa diffidenza appare non strutturata rigidamente o secondo vecchie coordinate ideologiche ma legata ad una lettura del capitale come assoluta flessibilità mutaforma, come capacità di produrre varianti. Un capitalismo mimetico in cui i capitalisti «cominceranno a fare quello che fanno sempre: iniziare a rubacchiare le idee più utili dei movimenti sociali schierati contro di loro (mutuo soccorso, decentralizzazione, sostenibilità) così da ridurli a qualcosa di sfruttabile e orribile» (p. 177).
Come si può vedere sono posizioni molto più attuali (nonostante in media da quegli scritti siano passati quindici anni) di buona parte di quel che si legge oggi. Non meno impressionante è la descrizione, nella cultura di massa, di come vengano veicolate le posizioni non accettate dall’industria culturale, come posizioni complottiste/negazioniste: «gli attivisti per la giustizia globale, quando per la prima volta riuscirono a catturare l’attenzione della CNN e di Newsweek, furono immediatamente bollati come reazionari “che credono nella terra piatta”, e la cui opposizione al libero commercio si spiegava solo con l’ingenua ignoranza dei principi economici più basilari» (pp. 32-33). Chi questi ultimi tre anni non li ha, per citare Machiavelli, “né dormiti né giuocati” dovrebbe restare impressionato dalla somiglianza.
Un’altra annotazione graeberiana fornisce una interessante spiegazione di una vecchia questione che ha sempre lasciato perplessi gli osservatori delle cose italiane (sebbene non sia un solo fenomeno italiano): il profondo risentimento per gli intellettuali da parte delle fasce socioculturalmente povere a cui non fa però pendant altrettanta durezza nei confronti dei ricchi. Anzi spesso nei confronti di questi appare una sorta di ammirato affetto (si pensi ai casi di Berlusconi o Trump) proprio in ragione di una loro sottolineatura del proprio stato patrimoniale e degli agi che questo gli consente. Graeber fa acutamente notare come la struttura sociale renda più possibile e pensabile, sebbene altamente improbabile, un arricchimento de povero ma non una sua collocazione in un’attività intellettuale: «un meccanico del Nebraska sa che è improbabile che suo figlio o sua figlia diventino dirigenti della Enron. Ma è possibile. D’altra parte non c’è effettivamente alcuna possibilità che suo figlio, non importa quanto dotato, diventi un avvocato per i diritti umani a livello internazionale, o un critico teatrale per il “New York Times”. Bisogna infatti ricordare non solo i cambiamenti nell’università, ma anche il ruolo degli stage non retribuiti, o di fatto non retribuiti. È un dato reale che negli Stati Uniti se qualcuno sceglie una carriera che non abbia a che far con i soldi, per almeno i primi due anni di lavoro non verrà pagato. Questo è particolarmente vero se si vuole essere impegnati nel sociale: lavorare per la beneficienza, o le ONG, o diventare attivisti politici. È altrettanto vero se si vogliono sostenere valori come la Bellezza o la Verità: entrare a far parte del mondo dei libri, dell’arte, o del giornalismo d’inchiesta. Il sistema taglia fuori queste carriere dalla portata degli studenti poveri che completano gli studi umanistici. Strutture di esclusione di questo tipo sono sempre esistiti, specialmente ai livelli più alti, ma recentemente sono divenute fortezze» (pp. 122-123). O ancora il rapporto tra destra conservatrice e capitalismo, apparentemente incompatibile e in realtà quasi sequenziale nella reciproca relazione: «Si potrebbe dire che l’approccio dei conservatori è sempre stato quello di sciogliere i cani del mercato, lasciando scivolare nel caos tutte le verità tradizionali; e poi, in questo tumulto di insicurezza, si propongono come ultimo bastione dell’ordine e delle gerarchia, incondizionati sostenitori dell’autorità delle chiese e dei padri contro i barbari che loro stessi hanno sguinzagliato» (p. 116).
E anche se, come dice, Graeber, “la guerra contro l’immaginazione” è l’unica davvero vinta dal capitalismo a leggerlo, in lui, non appaiono i segni della resa.