Aldous

Biblioteca del coraggioso mondo nuovo

CENTO PAROLE AL GIORNO

USA 2018, mentre la cosiddetta “dottrina Trump” s’imponeva, dentro e fuori casa, all’attenzione dei tanti, nelle stesse terre del melting pot vedeva la luce un ennesimo romanzo che, qualora ve ne fosse stato bisogno, andava ad aggiungersi al Sancta Sanctorum del già nutrito filone distopico di ordine femminista di successo. L’opera letteraria in questione, porta per titolo Vox, prodotto d’esordio di Cristina Dalcher edito da Nord.

Con una scrittura priva di orpelli semantici, l’uso di un linguaggio diretto, asciutto, a tratti forse troppo e a discapito di una maggiore profondità e articolazione di pensiero, l’autrice centra comunque il bersaglio toccando la sensibilità di superficie del lettore medio che, da subito, diviene empatico complice dei bisogni, degli intimi desideri, dei sussulti d’odio, di libidine e soprattutto, delle ragioni di ribellione e tradimento della protagonista, Jeane. Non potrebbe essere altrimenti. Di fatto, il gran numero di elementi (ammiccamenti?) tipici di un prodotto letterario che soddisfi precisi comparti socioculturali, precise sensibilità (che siano quelli di una sinistra radical chic o alla comunità LGBTQIA+ e altri), ci sono tutti. Troviamo, infatti, l’amica politicizzata, attivista rampante, e la ricercatrice geniale, rigorosamente entrambe lesbiche; il conciliatore, dialogante col potere che, a sorpresa, rivela un salvifico sprazzo d’eroismo e via così.

Lo scenario di futuro immaginato dall’autrice, che in vero non osa discostarsi da soluzioni già battute ben più sapientemente da altri è quello di un regime totalitario bianco giunto a sovvertire l’ordine costituito e cambiare, ovviamente in peggio, le sorti delle donne. Sin qui, niente di nuovo dal fronte. Alle donne, dunque, espropriate di ogni diritto e possibilità, che sia detenere un passaporto, un lavoro, studiare o più semplicemente esprimere se stesse (se non nell’ambito della famiglia e sempre sotto la vigile guida di un marito) è concesso di poter proferire cento parole al giorno. Cento miseri lessemi per elargire affetto, esprimere bisogni, palesare un dissenso. Diversamente, saranno delle scariche elettriche inflitte, in sapiente ordine crescente d’intensità, attraverso un contatore che lo stesso potere pretende si debba chiamare braccialetto, a riportare nell’immediato sulla retta via colei che oserà trasgredire (insomma, quando un regime educa, educa!). Sarà la protagonista Jeane, che possiede tutte le caratteristiche richieste alla ribelle donna eroica, lei e solo lei, a salvare tutti. A salvare il mondo da un progetto sanitario criminale che prevede di silenziare quanti non aderiscono al modello di vita imposto. E anche qui, nei fatti, nessuna particolare sorpresa.

Certo, il discorso sui diritti tentato dalla nostra autrice (diritto alla diversità, alla libertà di pensiero, di parola) nel romanzo manca di una certa profondità: un più rigoroso scandaglio delle eventuali implicazioni psicologiche e sociologiche interne alle questioni; quel necessario seppur complesso lavorio personale, spesso contraddittorio ma, in grado di far emergere i temi nelle loro più intrinseche significazioni; una consistente analisi di processo collettivo che fa giungere i membri di una società al nocciolo delle cose e induce a decisioni, seppur drastiche e sofferte, almeno giuste. Eppure, ciò che in parte salva questo romanzo dal peccato di banalità letteraria sono alcuni particolari elementi che ci regalano interessanti assonanze col nostro presente portandoci a riflettere su di esso. Singolare, per certi versi originale, la trovata di Dalcher di affidare a un oggetto vezzoso, frivolo, solo all’apparenza innocuo, al cui obbligo d’indossarlo nemmeno le bambine si sottraggono, l’onere di monitorare e regolare libertà e vite. Delle donne, ovviamente!

Un ammennicolo insomma, scelto da maschi, per ornare un altro ammennicolo, le donne, attraverso cui mascherare la volontà di confinarle in un assordante silenzio. Un oggetto, dunque, emblema di una volontà patriarcale agente. Questa, l’intenzione che vuole veicolarci l’autrice.

Se scegliamo però un’altra prospettiva e proviamo ad andare oltre la questione evidente e solita del patriarcato tanto cara a Dalcher, l’oggetto in questione può essere interpretato come la rappresentazione concreta e manifesta, del rapporto tra “potere e linguaggio”. Più specificatamente, l’oggetto di cui si parla è l’espressione tangibile di una precisa strumentalizzazione della parola da parte del potere, a dispetto di ogni evidenza. Si comprende così, come sia possibile che un oggetto/contatore, dal design accattivante ma terrificante per ciò che comporta, uno strumento di limitazione e tortura, possa essere narrato semplicemente come bracciale. S'intende bene perché, gli aguzzini, come il reverendo Carl Corbin, i delatori, gli imboniti dal sistema, come il figlio della protagonista o ancora, i criminali che pianificano un intervento sanitario atto a cagionare danno a una parte di popolazione, possano essere narrati dal potere come “puri”.

La distopia della nostra autrice, dunque, nonostante i limiti letterari, ci suggerisce che ogni potere opera una sua narrazione, dove significati e significanti vengono piegati agli scopi intrinseci al potere stesso. Intuiamo così, cambiate le cose da cambiare, che persino per noi potrebbe esserci dietro l’angolo un “contatore” (potrebbe?) pronto a irrompere nelle nostre vite, che magari esso non sarà detto bracciale ma “Green pass” o “tampone” o ancora, “modulo di autocertificazione per gli spostamenti” o chissà cos’altro ma, pur se la sua funzione non sarà quella di veicolare scariche elettriche alla fine, essa potrebbe essere (potrebbe?) quella di limitare scelte e libertà individuali e collettive. Anche per noi, potrebbe esserci in agguato l’idea non proprio peregrina di un intervento sanitario esercitato con coercizione sulla popolazione da parte di un potere, che narrando principi assoluti di verità scientifica e difesa della salute, magari aiutandosi con qualche leggina e un po’ di terrorismo mediatico finirebbe con l’espropriarci, proprio come in Vox, di un nostro precipuo diritto: poter decidere del nostro corpo. E chissà, se poi, lo stesso potere non finirebbe col narrare i tanti di noi, se non come “non puri” magari come “untori” o complottisti o “complottisti untori?” In sostanza, proprio come suggerito dallo scritto, nessuno potrà mai ritenersi al riparo da certe narrazioni che, partendo proprio da un uso e consumo strumentale della lingua, pretendono d’indicare la via retta, vera e “pura”, dettano ciò che può o non può essere pensato, ciò che è giusto dire o no e, soprattutto, quanto dire per non essere espulsi dal consesso dei riconosciuti. Pena: la cancellazione, la gogna mediatica, lo stigma, l’oblio sociale.

Un ulteriore elemento d’interesse rintracciabile, anche se a fatica, tra i fumi dell’atmosfera oppressiva e vessatoria del romanzo, mediante i pensieri e lo sguardo di Jeane è offerto dal processo che compie il potere (qui si tratta di un regime totalitario ma, potrebbe valere per qualsiasi altra forma di governo) nel conquistare sempre più ambienti di dominio. Come esso, potere, a piccoli, ingannevoli passi, con l’ausilio di pochi giusti conniventi, “tra e per” la disattenzione dei più, esso riesca a imporre la propria visione del mondo determinando drammatici percorsi di sofferenza nelle esistenze altrui. Sopra tutto, a emergere è la disattenzione dei tanti indifferenti/disattenti come implicita censura al libero dissenso e ai suoi portatori, ai quali non rimane che essere inascoltate voci e prime vittime di un sistema sopraffattorio che, presto o tardi, come un boomerang, colpirà anche gli stessi disattenti. È ovvio, ogni romanzo può essere approcciato seguendo due piani: l’idea dell’autore/ autrice, che vuol farci focalizzare su precipui aspetti oppure cercando di rintracciarvi quegli elementi meno evidenti, magari appena accennati (perché scomodi per lo stesso autore /autrice o perché meno funzionali alla sua intenzione) ma non per questo meno interessanti da scandagliare.

Vox, forse, va affrontato guardando a questo secondo modo di procedere e dopo aver fatto ciò, sarebbe bene chiedere a noi stessi se, di fatto, vogliamo essere parte di quella maggioranza indifferente e paurosa, se non connivente o se siamo disposti a essere minoranza consapevole disposta a rischiare di dover pagare il fio.