Aldous

Biblioteca del coraggioso mondo nuovo

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI VIRUS

L’esperienza della pandemia, questo evento pervasivo che ci ha avvolti nelle sue spire durante l’ultimo biennio, ha costituito per molti versi un disvelamento per ciascuno di noi: non solo si è fatta "luce sul corpo sociale e su chi ci stava accanto" [cit. da Alberto Giovanni Biuso, Disvelamento. Alla luce di un virus, Algra Editore, CT, 2022, quarta di copertina], ma anche abbiamo dovuto constatare sulla nostra pelle quanto eravamo preparati a percorrere i sentieri solitari del pensiero critico tutte le volte che la nostra anima sociale – quella che si sa snodo di un’ampia rete di consimili - veniva messa in crisi dalla asserita necessità di accettare o meno una visione del mondo che a molti sembrava sensata mentre per altri non lo era affatto, o almeno non lo era in accordo col senso comune. Con gradi differenti, a seconda della sensibilità critica di ciascuno, tutti ci siamo trovati davanti alla scelta di affidarci o meno alle decisioni di responsabili politici saldamente accampati sulla seconda linea di chi mette davanti a sé gli esperti del caso: le solide certezze scientifiche poste alla base degli infiniti provvedimenti finalizzati al controllo della pandemia (che, guarda caso, coincideva con il controllo dei possibili contagianti-contagiati, ovvero, tutti noi) prospettavano una sorta di responsabilità dimidiata del legislatore e, a cascata, di tutti i protagonisti coinvolti nella “cura”, ma non c’era tempo per cavillare. L’urgenza ha spinto ciascuno di noi a trovare le risorse utili a fornire una risposta pratica alle sollecitazioni del momento.

Immaginare che molta parte di queste risposte sia stata frutto del caso o di movenze disordinate è possibile: basterebbe ammettere che la guida principale sia stata la cieca paura, questa emozione primaria che ci spinge ad agire mettendo la massima distanza tra noi e il ravvisato pericolo. La paura invece della riflessione. C’è stato però anche chi ha optato per il passo indietro di chi si ferma a pensare, anziché avanzare alla cieca. Così la gran parte, guidata dalle rassicurazioni degli esperti amplificate dai media e mossa da nobili sentimenti umanitari, peraltro sollecitati da quegli stessi media, ha consapevolmente scelto la strada che era stata proposta dagli amministratori pubblici. Qualcun altro, invece, più scettico di fronte agli eventi, ha scelto il mestiere del Bastian contrario, trovando - un po’ a sorpresa - infinite buche in cui la propria critica è stata depotenziata. Ciò ha fatto nascere il sospetto che il Potere che usava inopinatamente il pugno di ferro si sentisse in realtà in grande pericolo; come se esso potesse mantenersi solo finché creava la paura insieme all’arma che la sconfigge, la malattia insieme al farmaco che la guarisce; finché evocava il terribile spettro della morte accanto al salvifico vaccino.

La Morte: ciò di cui non si può parlare davvero, a costo di tappezzare il mondo con la sua ossessiva messinscena. Niente è più invisibile di ciò che è continuamente in vista.

Qualsiasi parte abbiamo assunto in questa tragedia, un disvelamento ci ha condotti ad abbracciare una parte e non l’altra: nell’oscurità del presente, abbiamo intravisto uno spiraglio che si è poi richiuso o ampliato, che ci ha rivelato un passaggio o un muro. Una sorta di Lichtung, commistione di luce e ombra, lampo che illumina e subito si spegne, mostrando per una frazione di secondo lo spettrale contesto in cui siamo gettati. Lichtung, non Wahrheit, per citare Heidegger (disvelamento, non verità). Già, perché la filosofia – questo sapere che molti scambiano ancora spesso per pura astrazione, per evasione dal mondo della concreta realtà - la filosofia può forse aspirare alla Wahrheit, ma fa i conti con la Lichtung: il suo sapere consiste più in un distillare conoscenza dalla carne dei giorni, che non in un teorizzare nuovi Iperurani. E quando si prova a leggere lo spartito del quotidiano, consapevoli che la filosofia è prima di tutto un atteggiamento e solo molto dopo un sapere, può capitare che tale

[…] atteggiamento filosofico divent[a]i l’espressione di una saggezza ironica e benedicente nella quale la vita coglie la sua tonalità più serena e può emanciparsi dall’angoscia che l’infodemia da SARS – CoV-2 instilla nelle persone e diffonde nel corpo sociale. Perché la vita è secondo Nietzsche qualcosa di molto più ricco, plurale e profondo rispetto alla paura della morte… [ivi, p.117].

Queste poche righe estrapolate da Disvelamento. Nella luce di un virus, appena uscito per Algra Edizioni, ci regalano la cifra del denso volume in cui Alberto Giovanni Biuso ha raccolto una serie di riflessioni elaborate sul tema della pandemia in un arco di tempo che la copre quasi del tutto.

Chi si avventura nell’avvincente lettura, sin dalle prime pagine può cogliere la grazia con cui Biuso riesce a comporre le tante vicissitudini pandemiche in un quadro dai colori vivaci, mai scontato, curato senza essere lezioso e troppo ben proporzionato perché si possa accusare l’autore di aver svolto una teoresi manchevole del suo principale attributo, l’equidistanza (la quale non è mai fuga dalla propria posizione, ma dialogo paritetico con tutte le altre posizioni, proprio a partire dalla saldezza del proprio punto prospettico).

Quale disvelamento inaugura la riflessione del nostro autore? Come un sasso gettato nell’acqua di un laghetto di montagna disegna cerchi concentrici via via più ampi, Biuso sceglie di muovere dal terrore inquieto che abita sempre al fondo degli umani ed emerge con tutta la sua forza in particolari circostanze per ricordarci che éthos anthropoi daimon, all’uomo è divinità il proprio éthos, il carattere, l’elemento che lo intride da quando è venuto al mondo [p. 15]. Il primo disvelamento ha a che vedere con se stessi, con il don Abbondio che spesso abita dentro di noi, tremebondo vaso di coccio che viaggia tra vasi di ferro. Ma quando lo sguardo spaurito di questo povero essere si alza dal particulare e osa intraprendere una ricerca coraggiosa a proprio rischio e pericolo, quale spettacolo si apre davanti a lui! Diventa allora possibile intuire prima e fissare poi tutti i negazionismi che si rivelano al suo sguardo attento di osservatore coraggioso: la negazione del limite connaturato all’esistere, da sempre contraddistinto da insecuritas; la negazione della socialità, in favore di una sterilizzazione che, per preservarci dal virus, finisce per privarci di quanto rende umana la vita; la negazione della molteplicità del corpo, negazione che infrange la dimensione olistica in cui la morte non è che il continuum della vita; la negazione della resistenza, quel dissenso che si ostina a leggere in quanto accade un’altra partitura rispetto a quella suonata dal grosso dell’orchestra; la negazione della scuola e dell’università, dove la relazione feconda di contaminazione del sapere messa in atto dal maestro viene confusa con lo sterile passaggio di dati di un computer; infine, la negazione dell’ultima consolazione davanti al morire, quell’accompagnamento che mantiene il morente nella dimensione sociale e familiare che gli spetta (bisogna arrivare vivi al momento di morire, ammoniva Paul Ricoeur) e consente a chi assiste di arrivare meno impreparato a lasciar andare chi si ama.

Inizia così il lungo ed intenso viaggio che, disvelamento dopo disvelamento, scopre e traccia con mano sicura il disegno di una realtà che - mancando alle attese dell’appassionato desiderio di chi ritiene che vivere sia una messa in gioco totale - appare svuotata di senso da un terribile equivoco universalmente diffuso: che basti respirare per essere vivi. Tracciarne un sunto sarebbe irrispettoso dell’autore e del lettore: al primo va garantito il rispetto della lentezza dell’argomentare che si inscrive nel dialogo vivo col lettore, e solo a lui deve spazi e tempi perché il dialogo resti tale, evitando di trasformarsi in una comunicazione a senso unico; al lettore, spetta il diritto (e pertanto il dono) del silenzio in cui far emergere la lotta che il franco confronto con un testo complesso può richiedere.

Ma c’è ancora qualcosa da dire.

… le modalità, le cause, gli effetti degli eventi contemporanei sono quasi sempre più complessi di come appaiano le notizie e interpretazioni della grande stampa, delle televisioni, dei social network. Uno dei compiti degli intellettuali – intendendo con tale termine coloro che cercano di pensare l’accadere in un modo non istintivo, non banale e non conformista e che abbiano strumenti per far conoscere il loro pensiero – consiste nel ricordare tale complessità all’intero corpo sociale, in modo che circostanze e problemi possano essere affrontati nel modo più profondo e fecondo possibile [p.23].

La complessità non è una dimensione univoca: essa è ampia quanto la nostra conoscenza, la nostra sensibilità, la nostra attenzione. Biuso, a partire dalle prime ferite che si imprimono nella sua carne (mentecorpo, come la chiama lui), allarga i confini della tela su cui ha tracciato i primi schizzi di quanto feriva il suo sguardo, estrapola la traccia in direzione dei suoi molteplici interessi esistenziali e filosofici, ovvero secondo quelle direttrici che, già sollecitate da una lunga, attenta riflessione (e soprattutto dalla testimonianza che da questa prende vita), vibrano con più forza davanti allo sfacelo. Ciò che questo viaggio preziosissimo ci restituisce è una visione d’insieme del senso altro di una narrazione che i più hanno accolto senza nemmeno immaginare le profondità abissali che essa celava sotto gli abiti stretti di una zoppicante logica.

Si tratta di un viaggio che ciascuno di noi dovrebbe fare: chi ha intuìto e provato a seguire – spesso a tentoni – una strada autonoma, vi scorgerebbe una condivisa sensibilità che ha trovato la strada per farsi parola: in essa, il rischiaramento dei punti più critici del percorso insieme all’energia che viene dal sentirsi compagni di viaggio di altri cercatori insoddisfatti e affamati di luce.

Chi, invece, ha convintamente seguito le posizioni maggioritarie, potrebbe scoprire quanto poco fondato sia il pregiudizio che vede nei dissenzienti degli incolti, preda di fobie, di errori logici e di insipienza scientifica: tale consapevolezza potrebbe finalmente muovere al desiderio di restituire dignità ad un confronto critico che non è mai davvero iniziato – a meno che non si commetta l’errore di scambiare per confronto la vuota parvenza degli intolleranti e pregiudiziali salotti televisivi.

Ma c’è un’altra ragione per cui questo viaggio andrebbe intrapreso da tutti i perplessi, dell’una e dell’altra parte: potrebbe essere interessante – perché no? –  accettare il rischio, sacro per chiunque si ritenga almeno un po’ filosofo, di far vacillare le proprie convinzioni onde rendere più salde le proprie certezze. Una sfida in piena regola e, una volta tanto, con un degno compagno di gioco.