IL LAVORO E LE FALSE ASTRAZIONI
Da tempo e in diverse occasioni Massimo Fini ha fatto una efficace critica del mito produttivistico e della sua celebrazione del lavoro come accumulo oltre le necessità. In età premoderna, egli sostiene, il lavoro non è mai stato celebrato come un valore da coltivare, così come avviene anche in certe popolazioni che, ad es., coltivano la terra per quanto loro basta. Si potrebbe aggiungere che ad essere lodato era piuttosto, presso gli antichi romani, l’otium, visto non come semplice e passivo adagiarsi sul non fare, ma come occasione per coltivare le più alte qualità dell’umano.
Ma in questa pur giusta e condivisibile critica si annida un equivoco di fondo, che si ripercuote in altri ambiti, contribuendo a una loro deformata interpretazione. Infatti nel criticare il lavoro si deve fare attenzione a non confondere l’astrazione con il portatore concreto di essa: non è il Lavoro in quanto tale che si deve esaltare e/o difendere, ma il lavoratore nel quale esso si incarna e che se ne fa interprete. Non a caso la Festa del Lavoro è stata istituita allo scopo di richiamare l’attenzione sulla necessità di tutelare i lavoratori dagli eccessi degli industriali, che praticavano anche lo sfruttamento del lavoro minorile. Non si celebrava quindi il lavoro in quanto tale, bensì i lavoratori soggetti a uno sfruttamento spesso inumano: nel celebrare il lavoro si difendeva la dignità umana di chi lo esercita, ed è quindi l’uomo l’oggetto della sua valorizzazione. Quella medesima umanità che oggi viene offesa e mortificata dai lavori precari e sottopagati, che arricchiscono sempre più la classe abbiente, contribuendo alla crescente diseguaglianza delle ricchezze.
Ma in tale confusione tra lavoro e lavoratore si incorre nel medesimo errore di chi invoca la Giustizia e non le azioni giuste, la Virtù e non le azioni virtuose. E infatti, nel primo caso, della Giustizia e della Virtù si vuol dare una caratterizzazione generale (una “definizione” nel senso accolto da Platone) che poi deve essere calata nelle singole situazioni, a prescindere da circostanze, persone concrete e diversi punti di vista; mentre nel secondo caso il giudizio è sempre contestuale, legato a concreti attori e quindi cambia nei tempi, nei luoghi e con le diverse tradizioni.
Il ricorso a tali assoluti è stata espressione della caratteristica sindrome originaria dell'Occidente; ma di assoluto non deve esserci che il rispetto per le persone; non per le loro idee – così ipostatizzandole e facendole divenire una entità quasi meta-temporale, da imporre über alles – ma per coloro che hanno tali idee, anche assai diverse dalle nostre o tra di loro, ma tutte da rispettare: sono le persone a dover godere di tale riguardo, non gli astratti concetti di cui essi sono portatori. Viceversa il voler definire in via generale i concetti, dando loro una valenza universale – sogno tipico di Platone che su questa base ha sconfitto la ragionevole posizione relativistica dei Sofisti – pone le premesse per un convincimento di superiorità in chi sostiene di essere arrivato a tale universale formulazione. E ciò porta assai spesso – quando questa tale convinzione si trasforma, anche a seguito di un credo religioso, nel fanatismo del “bene oggettivo”, cioè della necessità che tutti la riconoscono, “per il loro stesso bene” – alla intolleranza verso gli altri, che vengono obbligati, anche con la forza, a riconoscere tali concetti universali, rivestiti dalla nobile etichetta di “valori non negoziabili”. Li si impone in nome della scienza, dell’episteme che si contrappone alla doxa, di una rivelazione sulla cui autenticità e verità ultimativa non viene nutrito alcun dubbio e che deve essere da tutti riconosciuta se non hanno la mente deviata e il senso morale pervertito. La fortissima convinzione di possedere il Vero è molto spesso incompatibile con le “piccole verità” di persone, popoli ed etnie diverse; essa spinge e incoraggia il tentativo di “illuminare” le altre genti, di condurle sul retto sentiero, di liberarle dall’ignoranza e dall’errore, vedendo in ciò addirittura un moto altruistico, una missione da adempiere come il “fardello dell'uomo bianco” di Kipling.
Resta in merito alla ipostatizzazione del lavoro un problema a cui è difficile dare risposta: donde nasce questa ansia produttivistica, questo voler crescere sempre più, questa ricerca del surplus; in quale momento storico si è sostituito al mero lavoro di mantenimento (tipico di molte società e tribù africane o comunque “primitive”), un lavoro di accrescimento. Che cosa ne è stata la scaturigine? Solo l’avidità, l’ambizione, il desiderio di beni, ovvero la naturale sete di lusso, arricchimento e ricchezza per vivere negli agi?
È difficile dare una risposta; basti osservare che in sostanza in questa domanda si cela la questione più generale dell’origine della assimilazione tra felicità e possesso; prima di questa identificazione la felicità poteva essere conseguita anche senza possedere beni materiali oltre le necessità vitali, perché essa consisteva nell’armonia dei rapporti sociali, nel vivere in un contesto gratificante, circondati dall’affetto di amici e parenti, così come è dato riscontrare in molte società pre-moderne. Anche in questo caso la felicità era contestuale, legata a tante piccole cose e ai molti rapporti che si intessevano nell’ambito di una comunità, e non al conseguimento di un Bene universale, da tutti riconosciuto. Ma con il mondo nato dalla rivoluzione industriale tale condizione è svanita a favore dell'identità tra felicità e possesso, tra gratificazione e acquisto di nuovi beni materiali. Una felicità tutto sommato fugace e sempre da ricreare, perché essa consiste in fondo nella tensione tra il non avere e l’entrare in possesso, per poi svanire dopo poco dopo la sua attualizzazione, al nascere di una nuova tensione, di un nuovo desiderio di possesso. Affinché si abbia un disaccoppiamento tra felicità e possesso è però necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, una maturazione dell’umana mind che riesca di nuovo a concepire il bene nel non possedere una maggiore quantità di beni, ma nell’intessere relazioni – con l’ambiente e con gli uomini – che siano fonte di gratificazione e non motivo di competizione.
A tale scopo è necessario sfuggire al dinamismo produttivistico e alla tensione verso un futuro che non si riesce a immaginare se non come crescita del Pil e del benessere materiale (“più beni”). È proprio ciò a caratterizzare le odierne società del mondo globalizzato, che per questo aspetto poco differiscano tra loro, sia in Oriente che in Occidente, appartengano alla NATO o ai BRICS. Forse un impulso al rinsavimento collettivo dell’umanità può venire dalla consapevolezza dell’impossibilità di realizzare universalmente questo obiettivo, in quanto poco compatibile con le risorse dell’ecosistema e col suo bilancio entropico; una consapevolezza che non può essere il frutto di disquisizioni teoriche, ma da quel pugno in faccia derivante da catastrofi ambientali così devastanti da spingere a invertire la rotta (se non sarà ormai troppo tardi).
È proprio questa la sfida che oggi il mondo ha davanti: contemperare una felicità diffusa con una crescita che sia compatibile con l’ecosistema terrestre e che vada soprattutto a vantaggio non di chi vive già nel benessere, bensì di chi oggi è nella sofferenza e nella miseria. Affinché ciò sia possibile occorre però superare una fase storica, come quella attuale, in cui o si tende a negare l’incompatibilità tra crescita infinita ed ecosistema; oppure, più cinicamente, a progettare uno “sfoltimento della popolazione” – anche mediante qualche guerra nucleare o epidemia “programmata” – che possa drasticamente far abbassare la sua pressione su di esso. Tanto le élite che progettano consapevolmente o favoriscono inconsapevolmente questo spaventoso futuro troveranno comunque i modi per salvarsi e garantire i propri cari.