PENSARE ANCORA IL LAVORO?
Va detto con chiarezza: il lavoro, i diritti ad esso collegati, la sua funzione emancipativa e di riconoscimento sociale sono da decenni al centro di una regia di svilimento tutt’altro che contingente e fatale condotta in Italia, più che in altre nazioni occidentali, con particolare perizia. Negli ultimi quindici anni i lavoratori poveri sono raddoppiati nel nostro paese, in percentuale maggiore rispetto alla media europea; al contempo rimuovere la piaga della sottoccupazione con adeguati sostegni al reddito è considerata una concessione agli indolenti e ai falliti, così come gli interventi di riequilibrio fiscale vengono ostacolati dalla compagine datoriale come troppo costosi e inefficaci. Scarse e poco incisive si sono dimostrate anche le politiche attive del lavoro, nonostante in quasi tutti i settori produttivi - tecnologicamente evoluti o tradizionali, manifatturieri o di servizi - la carenza di addetti è evidente per il consumatore-utente finale e confermata dalle statistiche di riferimento. Il lavoro non sembra mancare in termini di fabbisogno, ma spesso a condizioni irricevibili e fuori dalla tutela dei controlli sulla sicurezza e contro le rinate forme di sfruttamento e di schiavismo. Di contro, è palese l’incapacità di trattenere in patria i cosiddetti talenti, che in realtà sono persone con anni di studio alle spalle e volontà di investire nel proprio futuro - e che in un paese evoluto non dovrebbero costituire un’eccezione - ma che non hanno gli “speciali requisiti” per aspirare ad un lavoro consono.
Per chiudere questo incompleto cahier de doléances, si aggiungano alcuni termini più ricorrenti veicolati giornalmente dai media: delocalizzazioni, dumping salariale, precarizzazione, contratti atipici (a chiamata, temporanei o in somministrazione lavoro, lavoro a partecipazione, ecc.) ma anche stage e tirocini, alternanza scuola-lavoro, subappalti, piattaforme e-commerce, riders e call center, lavoro nero e caporalato, licenziamenti e morti bianche. Un paesaggio desolante che inaridisce vite, umiliandole sotto il peso di una pretestuosa accusa di mancanza di iniziativa e di inadeguatezza a tenere il passo coi tempi.
A traino dell’economia neoliberista, la politica ha dunque dichiarato guerra al lavoro “vivo” ma si tratta di una prerogativa, per quanto oggi acutizzata, insita al sistema capitalistico e alla risalente organizzazione del lavoro come attività socializzata, misurabile e scomponibile in sottoprocessi ad efficienza crescente, allo scopo di massimizzarne l’estrazione di valore. Ed è appunto il concetto di valore connesso al lavoro che dischiude la sottostante ambiguità di significati, fra loro contrapposti: da un lato la misura materiale del lavoro mercificato e monetizzato, dall’altro la qualità morale dell’essere umano che proprio attraverso il lavoro acquista valore personale e si nobilita. La corrispondenza stretta tra questi due piani è la camicia di forza da cui è impossibile liberarsi, poiché alimenta il circolo vizioso che rende sempre più avido il capitale e più mendìco di mezzi di sussistenza e di dignità - ma anche più dipendente dai desideri - il prestatore d’opera, disposto a lavorare a qualunque condizione e tuttavia destinato ad essere sostituito dalle macchine che, nel frattempo, addestra.
Se, come sembra, la strada imboccata è senza ritorno, dal momento che il capitalismo si rigenera ad ogni crisi con più vigore per effetto degli stessi meccanismi che producono scarsità di lavoro, uniformità culturale e sudditanza sociale, allora si fa strada l’idea che nel lavoro, svuotato di valore dallo sfruttamento e dalla precarietà, e quindi nel lavoro in quanto tale, non risiede alcun significato morale ma, al contrario, ciò che va perduto è proprio il valore della persona. Nel pensiero filosofico politico che si colloca a più o meno distanza dalla traiettoria del marxismo, la riappropriazione del lavoro alienato avrebbe dovuto ristabilire la giustizia sociale e riconsegnare all’umanità sfruttata un orizzonte di senso. Tale prospettiva, anche di recente rivalutata e reinterpretata alla luce delle trasformazioni del mercato del lavoro e delle nuove tecnologie, rimane tuttavia all’interno del presupposto secondo cui “Il fine di personalizzare il proprio lavoro è voluto, agito e difeso con forza non solo in professioni presumibilmente creative o esplicitamente sociali, ma anche in altre aree lavorative (e al grado più basso della scala retributiva).” (R. Jaggi, Nuovi lavori nuove alienazioni, Castelvecchi, 2020, p. 26). Rimane tuttavia il fatto che tanto l’utopia collettivista quanto l’interpretazione calvinista di Max Weber (ma anche certe correnti del socialismo cattolico e del pensiero liberale) pur partendo da presupposti assai diversi, finiscono per teorizzare la commistione fra economia ed etica, intravedendo aspirazioni salvifiche o utopiche, l’una nel successo mondano come segno della grazia divina, l’altra nello sviluppo delle capacità umane una volta sovvertito l’ordine del lavoro alienato. Tuttavia tali prospettive rimangono all’interno di una medesima cornice concettuale secondo cui il lavoro “struttura le nostre vite, la nostra autocoscienza, il senso di sé e le nostre relazioni sociali” (Jaggi, p. 24).
Ma se la realtà rimanda un quadro che mostra la menzogna delle promesse e delle dichiarazioni di principio, che evidenzia l’inefficacia delle forme di lotta e la frammentazione, anziché la socializzazione, del lavoro e della collettività umana e che, infine, tutto ciò si trasforma in frustrazione e sofferenza psichica per milioni di persone destinate di fatto alla povertà, allora è necessario rompere quella cornice per svegliare il pensiero e stimolare il dubbio che il lavoro non possa, invero, soddisfare alcuna istanza etica né sviluppare in alcun caso una buona vita.
Per compiere questo esercizio mentale occorrono non pochi ingredienti: un salto temporale all’indietro di quasi un secolo; una casa editrice controcorrente che “si propone di rianimare quella letteratura straniera e italiana dimenticata ... riattivandone lo spirito dissacratorio”; un tema controverso; un titolo choc e un autore che merita di essere riscattato dallo scherno della cultura filosofica del suo tempo e dalla politica persecutoria del regime fascista: Giuseppe Rensi, uno spirito libero, inviso ai potenti e perseguitato fin dopo la morte nel 1941(le cronache del tempo riferiscono che la polizia vietò il suo funerale disperdendo il corteo di amici e studenti riuniti per onorare la sua figura). Il risultato di tutto questo è la riedizione del pamphlet di Giuseppe Rensi, Contro il lavoro, WoM Edizioni, 2022, un testo del 1923 che a una prima lettura appare bizzarro, pessimista e ancorato alla tradizione antica del lavoro come asservimento, “una necessità inferiore della vita della specie e dell’esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla più alta natura dell’uomo” (p. 22) nonché “negazione assoluta della spiritualità propriamente umana” (p. 38).
Ma da questo convincimento, che è l’idea cardine da cui muove Rensi, non deriva alcuna stucchevole riproposizione di modelli del passato che ne farebbero un’erudita quanto inutile evocazione, tanto più che non si dà antitesi per lui tra la vita attiva e la vita contemplativa, né gerarchia tra il lavoro manuale e l’attività intellettuale. Ogni specie di lavoro, per Rensi, contrasta con il dovere morale poiché la sua natura è unicamente strumentale, motivata da un interesse estraneo all’attività in sé, che viene svolta non per proprio piacere, “non per il gusto di spiegarla, ma perché costretti dal comando del desiderio o del bisogno delle cose che mediante quella ci procacceremo” (p. 44). Lo spirito amaro ma indomito di Rensi, per il quale può essere collocato senza sfigurare nella linea del pessimismo di grandi spiriti come Schopenhauer e Leopardi, non lo porta né a vestire i panni del predicatore, né a ricercare improbabili vie d’uscita. “Il problema del lavoro, - questo è l’incipit del suo ragionare - come tutti quelli che maggiormente interessano l’umanità, è, così dal punto di vista morale, come dal punto di vista economico-sociale, insolubile: ossia, per quanto naturalmente vi si possa dare e vi si dia in realtà sempre una qualunque soluzione di fatto, esso non è suscettibile d’una soluzione razionale, ‘giusta’”. (p. 15). In nessuna forma di società cesserà l’ingiustizia, secondo Rensi, che non crede nella possibilità di liberarsi dal lavoro poiché della vita, cioè di quella spirituale, esso è condizione sine qua non. Liberare il lavoro dall’ideologia morale o religiosa, mantenendo intatto e sacrosanto il diritto di rivendicare i miglioramenti di una condizione materiale, di per sé dannosa e triste per l’umanità, è il punto di arrivo di una visione disincantata che fa dell’assunzione coraggiosa del negativo una chance per il pensiero per parlare a noi oggi - a un secolo di distanza - di cosa sta realmente accadendo: la decostruzione della persona umana in nome del valore morale del lavoro che però non c’è, che si è perduto o che forse si sta per perdere, che non basta per vivere, che espone a rischi di ogni sorta, che non garantisce una vita né degna né sicura.