Aldous

Circolari ipnopediche

LA VERSIONE DI YEOSHUA

Come si spiega che un popolo, segnato nella sua storia più recente dall'orrore della Shoah, possa sopportare l'annientamento di un altro popolo, per giunta semita? Come si arriva a legittimare un tale paradosso che contrasta perfino con la misura vetero testamentaria della proporzionalità tra l'offesa e la vendetta?

Per quanto la domanda possa apparire ingenua e perfino grossolana, il massacro di Gaza chiama in causa una questione non solo radicale ma anche scomoda e a rischio di clamorosi fraintendimenti: l'identità ebraica e quanto di enigmatico si agita nell'anima profonda di un popolo che ha eletto l'unicità a suo tratto distintivo. E non a torto, perché la componente ebraica in ogni campo dello scibile ha contribuito nobilmente alla formazione della cultura europea nella quale ci siamo specchiati e riconosciuti. Così, parafrasando Benedetto Croce a proposito del cristianesimo, non possiamo non dirci ebrei. La schiera di personalità influenti stabilisce infatti un autentico primato, considerando che da sempre il popolo ebraico ha rappresentato un'esigua e tribolata minoranza e che anche oggi si stimano intorno ai 15 milioni di ebrei nel mondo, di cui poco meno della metà in Israele. Di contro, fin da tempi remoti, in differenti contesti sociali e con pretesti di varia natura, gli ebrei hanno suscitato sentimenti a loro avversi, tanto che verso di loro l'ostilità non ha conosciuto tregua tra persecuzioni, espulsioni e confinamenti fino allo sterminio di sei milioni di vittime nei lager nazisti. "In ogni generazione è in agguato chi vuole sterminarci" recita il versetto che accompagna la tradizionale cena pasquale.

In questo senso la constatazione che un'eccezione aleggi sull'ebraicità non è facilmente liquidabile. Essa va decostruita come pregiudizio ma indagata nelle sue radici più remote, giacché è tuttora presente e saldo il retroterra biblico che la alimenta. Occorre tuttavia l'aiuto di una guida autorevole per avventurarsi in un siffatto territorio. Caso ha voluto che per merito o per colpa di un libro, a condurci sia Abraham B. Yeoshua, noto come scrittore di romanzi imperdibili e anche autore di scritti politici, alcuni dei quali pubblicati da Einaudi nel 2009 in una piccola raccolta dal titolo emblematico "Il labirinto dell'identità". Sono contributi che coprono il breve arco temporale di un decennio, tra il 1996 e il 2006, attraverso i quali si riesce a sollevare un poco il velo che tiene celato il codice segreto di un popolo.

Ciò non significa condividere ogni angolazione della prospettiva dell'autore, o dissentirne, dal momento che si intuiscono subito le mille coloriture dello sfondo ideale e ideologico della società ebraica anche all'interno di una stessa famiglia politico-culturale. Cionondimeno un insieme di ragioni rendono interessante la conoscenza di questi scritti: in primo luogo l'autore parla da sionista convinto ma anche convintamente critico e perciò aperto alle asperità del dialogo con le posizioni avverse; è poi apprezzabile la franchezza con cui affronta la questione dell'identità ebraica e il ruolo della Shoah nell'intento di dimostrare che - forse - si può e si deve cambiare qualcosa per arrivare ad una condizione di normale convivenza con i popoli vicini; infine, la dislocazione cronologica che li colloca lontano dall'attuale parossismo di Israele, figlio delle devastanti dinamiche globali di questo sciagurato presente. Perciò, così come comprendere non equivale a giustificare, allo stesso modo discernere lo "spirito ebraico", cercando di tacitare per un momento lo sdegno, non significa stabilire una volta per tutte il legame esclusivo e diretto di un popolo con le nefandezze di chi lo governa. Quanto mai opportune in questo momento risuonano le parole di Yeoshua nella prefazione al libro: "è come se noi ebrei ci trovassimo in una sorta di labirinto in cui avanziamo, retrocediamo e ci smarriamo alla ricerca della nostra stessa identità. In questa modesta raccolta di scritti ho cercato di accendere un piccolo lume per illuminare i meandri e le tortuosità di tale dedalo e forse, grazie alla sua debole luce, segnalare una via d'uscita senza tuttavia intaccare il nocciolo di questa identità." Qual è dunque, dal suo punto di vista, il nucleo di questa identità e soprattutto che cosa ha impedito e impedisce agli ebrei di Israele di garantirsi un'esistenza normale? Secondo Yeoshua, il nodo da sciogliere riguarda il conflitto, tutto interno al popolo ebraico, germinato dal rapporto tra la diaspora e il sionismo e dalle tensioni che si agitano in seno a ciascuna delle due polarità.

I primi episodi di diaspora vengono fatti risalire al termine della cattività babilonese, se non ancor prima, quando più della metà degli esuli decise di non rientrare nella madrepatria. Una scelta ripetuta in altre circostanze decisive, dopo la caduta di Roma o con l'espulsione dalla Spagna, ad esempio, quando gli ebrei preferirono stabilirsi in vari luoghi del Mediterraneo e del Medio Oriente ma non nella terra dei padri. Perciò quando Herzl elaborò il sogno sionista, con il duplice obiettivo di sfuggire all'antisemitismo preannunciato dal caso Dreyfus, e come deterrente contro la tendenza degli ebrei a disperdersi, non solo non ci fu una spinta all'effettivo ritorno alla terra promessa, ma molte resistenze e contestazioni si levarono contro il movimento. Yeoshua, perciò, mette in risalto come la diaspora non testimonia affatto una condizione imposta agli ebrei quanto una libera scelta anche per coloro che vivevano in condizioni difficili o precarie "per eludere un conflitto sostanziale e fondamentale dell'identità ebraica (...) in seguito alla straordinaria identificazione di una particolare nazionalità con una particolare religione" (p. 47).

Ma contro ogni logica, anziché provocare la disgregazione dell'identità, la diaspora ne ha favorito il rafforzamento. Sulle ragioni che l'hanno alimentata - questo è un punto chiave - il sionista Yeoshua non dà spazio al dubbio. Si è trattato di una scelta "nevrotica" (p. 50) dovuta al bisogno psicologico di alleggerire il peso del conflitto tra due codici comportamentali - nazionale e religioso - e per vivere in mezzo ad altre comunità fuori dal controllo sociale che ogni ebreo poteva esercitare sullo stile di vita dell'altro. "Nella diaspora gli ebrei si sentivano liberi nei confronti dei propri connazionali, erano in grado di trovare un equilibrio tra appartenenza nazionale e religiosa e di interpretarle a loro piacimento". (p. 51). Gli ebrei sono riusciti in tal modo a mescolarsi e, allo stesso tempo, a distinguersi dai gentili, circoscrivendosi unicamente come minoranza religiosa indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza. Si direbbe che si sia trattato di un meccanismo di interiorizzazione diffusa di un'identità comune, resa possibile dallo spostamento sul piano spirituale e rituale di elementi tipicamente nazionali. Yeoshua lo spiega in termini di "trasposizione virtuale" in cui l'elemento religioso ha assorbito e conservato ogni altra componente materiale in forma simbolica: la patria come terra santa, la lingua riservata al culto, l'esercito e la nazione sublimate in metafore spirituali e il ritorno a Sion trasformato in richiamo interiore alla redenzione anziché come ritorno ad una realtà concreta.

Il sionismo, che della diaspora rappresenta l'antitesi e verso la quale Yeoshua non risparmia la ruvidezza del giudizio, non ha tuttavia sciolto quel vincolo biblico che si trova ancora "alla radice dell'amaro conflitto interno degli ebrei e di quello geopolitico con i popoli che li circondano" (p. 54). Al sionismo, infatti, è mancato un vero programma politico unitario che assumesse su di sé i problemi conseguenti alla comparsa di Israele nel mondo arabo e alla proclamazione unilaterale di uno stato indipendente. Al fondo del sionismo non si trova una teoria articolata ma un aggregato di ideologie differenti e contraddittorie, tenute insieme dall'unica idea della fondazione di uno stato sovrano.

Prova ne sia tanto l'eredità passata oggi nelle mani del colonialismo più violento quanto il "j’accuse“ pronunciato nel 2003 dall' ex presidente della Knesset e figura di spicco del sionismo internazionale, Avraham Burg: "È impossibile che la maggioranza palestinese sia sottomessa al pugno di ferro dei militari israeliani. È impossibile credere che siamo la sola democrazia del Medioriente, perché non lo siamo. Senza l'uguaglianza completa degli arabi, non c'è democrazia. Conservare i territori e una maggioranza di ebrei solo nello stato ebraico, rispettando i valori dell'umanesimo e della morale ebraica, rappresenta un'equazione insolubile. Volete la totalità del territorio del Grande Israele? Perfetto. Avete rinunciato alla democrazia. Realizzeremo allora un sistema efficace di segregazione etnica, di campi di internamento, di città-carceri: il ghetto Kalkilya e il gulag Jenin." (https://www.juragentium.org/topics/palestin/doc14/it/burg.htm)

Uscire dal labirinto per Yeoshua significa dunque recidere il legame degli ebrei con una religione gelosa che li ha tenuti, in patria e fuori, distinti e contrapposti alle altre comunità. La scelta di mantenersi ospiti in terra straniera può aver suscitato, in particolari condizioni, sentimenti ostili. Alcuni teorici sionisti di orientamento laico hanno dibattuto intorno al problema dell'antisemitismo anche in termini di corresponsabilità del comportamento elettivo degli ebrei. Questo coraggio dell'autocritica, tuttavia, si è affievolito comprensibilmente con il trauma della Shoah (p. 18) che ha congelato ogni indagine sull'origine della giudeofobia così come ha trasformato la tragica memoria collettiva a ostensione rituale. La critica di Yeoshua alla diaspora è dunque tutt'altro che generica poiché da un lato le si rimprovera di aver contribuito a rafforzare negli ebrei sparsi nel mondo l'idea di Israele come sogno millenario, separandolo idealmente dalla concretezza di uno stato costituito: "I valori ebraici non sono profumi racchiusi in un elegante cofanetto che posso aprire il sabato o i giorni festivi per goderne l'aroma, ma fanno parte di una realtà quotidiana irta di problemi nella quali tali valori si concretizzano e sono giudicati, nel bene e nel male." (p. 64) Dall'altro lato, per la stessa ragione, la diaspora non ha dato agli israeliani l'apporto necessario per evitare di cadere nella trappola della concezione mitica del proprio passato e per liberarsi, dall'enfasi posta sugli scritti antichi e sulle questioni puramente religiose come fossero l'essenza dell'identità ebraica mentre, al contrario, non fanno che accrescere il senso di alienazione.