Aldous

Circolari ipnopediche

L'IGNORANZA COME VOCAZIONE

In fondo questo volume ha in sé i tratti del noir e dell’horror, della fantascienza e della tragedia, tutte insieme. Campeggia nelle sue pagine un atroce delitto, si vede delinearsi l’identità dei rei che svelano però la propria irrilevanza a fronte di ciò che c’è dietro di essi: la presenza di forze cieche e immani. Un volume che turba e ti fa sentire messo all’angolo. La cosa davvero strana però è che non si tratta di un volume di Sofocle o di Dick, di King o di Dürrenmatt bensì del genere editoriale meno glamour e affascinante che storicamente si dia: la pubblicazione di atti di convegno. Quella provenienza che gli editori che davvero fanno il proprio lavoro cercano di celare, magari in una nota bibliografica, perché sanno come evochi giustamente nel lettore un senso di noia, eterogeneità qualitativa dei contributi, difficoltà a restare sul tema, narcisismi accademici, capziosità bibliografiche. Tutto vero ma non per questo volume che andrebbe letto e meditato, costringendosi a restare nel disagio che provoca a noi lettori. 
Stiamo parlando de La scuola dell’ignoranza, un volume edito per Mimesis nel 2019 a cura di Sergio Colella, Dario Generali e Fabio Minazzi. La particolare riuscita del volume è data probabilmente dalla natura della giornata di studi che l’ha generata dove appare evidente come prevalga una istanza innanzitutto etico-politica. Non un incontro per discutere pianamente lo stato dell’arte degli studi sulla situazione della scuola italiana ma un grido d’allarme, un bisogno di dire ciò che sta succedendo e di chiedere solidarietà. Ciò che sta succedendo, e che ho cercato di cartografare nel mio volume Lumpen Italia uscito nel 2015 dall’editore Ipoc, è la trasformazione della scuola in Italia da principale fattore di costruzione culturale della società a veicolo di una “cultura dell’ignoranza”, a vero e proprio – per citare Sgalambro – “vaccino di ciò che inocula”. 
La scuola italiana a partire dagli anni Novanta del Novecento si è fatta motore di una distruzione sistematica della cultura degli italiani ed è importante capire (anche rischiando di passare per qualunquisti) che questa imponente opera di distruzione passa tanto dalle famigerate tre i di Berlusconi (in fondo prosecuzione governativa del lavoro di destrutturazione culturale iniziato nelle sue reti televisive nel decennio precedente) quanto dal certosino lavoro di disarticolazione accademica della cultura occidentale iniziato da un tecnocrate che si riparava dietro l’usbergo di un cognome che lo mettesse al riparo dalle perplessità dei docenti e dell’opinione pubblica (parlo ovviamente di Berlinguer). Chi scrive iniziava a fare l’assistente universitario nel secondo semestre del 2000 e ha avuto il dubbio privilegio di vedere con i propri occhi cadere di schianto la preparazione degli esaminandi in seguito all’entrata a regime del 3 più 2. Il computo dei crediti, la commutazione in pagine, i classici trasformati in un “taglia e cuci” (da p. 8 a pag 31 e da pag 67 a pag. eccetera) per rientrare nei limiti, la proliferazione di esami sempre più frequenti e sempre più ridotti nel programma (con il conseguente spostamento della preparazione dello studente da cultura a memoria a breve termine) e così via.
Ciò che emerge dal volume, torno a scriverlo, è come le disposizioni di un ministro in fatto di scuola vengano proseguite dal successivo indipendentemente dal colore politico del ministro, dalla cultura di appartenenza (frase che ad alcuni ministri dell’istruzione invero sta un po’ larga) e dalla più generale collocazione politica del governo. Che pensare di questa uniformità ormai trentennale? Forse che non è all’altezza del ministero che si decidono i quadri generali di azione del ministero? O che non è in Italia (realtà culturale sempre più periferica, che ormai sempre segue e mai precede tranne che in fantasiose performances videosocialpopuliste) che le linee di tendenza possono essere invertite? Indubbiamente la fine della cultura umanistica sembra un vero e proprio target mondiale (si pensi al fin troppo moderato ma esemplificativo volumetto di Martha Nussbaum, Non per profitto, sull’attacco mondiale all’umanesimo). 
Nel disegnare questo scenario, La scuola dell’ignoranza raggiunge dei livelli di parresia che di rado si trovano in Italia. Basti qualche titolo e sottotitolo dei contributi principali del volume (tra questi sicuramente quelli di Biuso, Generali, Minazzi e Latempa) a svelare le posizioni dei contributori. C’è chi sottotitola “Un percorso trentennale di destrutturazione del sistema formativo scolastico nazionale” e chi “Ignoranza, obiettivo formativo della nuova scuola” e chi ancora “La valutazione totalitaria”. In tutto ciò non si pensi alla penna svolazzante del pamphlet: il volume descrive con dovizia di dati, di esempi, di esperienze personali di uomini di scuola e di cultura, di riferimenti politici e legislativi, di citazioni dell’ipertrofica produzione di esperti tecnocrati ministeriali. 
Un passaggio è centrale e andrebbe ben compreso pena aggirarsi tra idiozie (buoniste e cattiviste) e luoghi comuni: la falsa democratizzazione della scuola italiana che diventando più facile e meno formativa è di fatto anche una scuola classista perché sposta la selezione dalla scuola alla società, una selezione che finisce con il radicarsi “nel differente ceto sociale di provenienza” (p. 9) esattamente come la scuola di inizio Novecento. Insomma, per capirci meglio: se ad esempio la scuola non riesce ad assicurarmi una conoscenza dell’inglese all’altezza della neoglobalizzazione, sarà allora la capacità economico-sociale della mia famiglia di mandarmi all’estero e iscrivermi a corsi privati aggiuntivi a fare la differenza. Sopperiscono dunque le “risorse delle proprie famiglie e del proprio contesto sociale”. Una scuola classista senza essere selettiva (un nuovo miracolo italiano, verrebbe da aggiungere). 
Ma tante sono le questioni su cui La scuola dell’ignoranza apre gli occhi al lettore: dalla pressione continua nel trasformare i docenti in amministrativi aumentando carichi impiegatizi e “paraformativi” allo spostamento del baricentro dal proprio sapere disciplinare (di cui nulla ti chiede la scuola, forse sperando che tu non lo abbia o perlomeno lo perda presto) a non meglio chiarite competenze che tutti a scuola fanno finta di sapere cosa siano per non restare indietro; dalla esplicita richiesta (con tanto di citazioni dai documenti ministeriali) al docente di non considerarsi né un intellettuale né un ricercatore (eppure una pagina non irrilevante della cultura italiana è stata scritta da professori di liceo) ma un somministratore di unità didattiche e di test, e poi sempre scendendo fino all’onnipresente sistema dei crediti che trasforma lo studente in un accumulatore di punti premio e, direi, in un ragioniere dello spirito. Nel frattempo, un certo numero di docenti continua a fare il proprio lavoro educativo nel migliore dei casi alle spalle del sistema o negli interstizi del sistema o più spesso contro il sistema.
Servirebbero degli intellettuali che si intestassero questa battaglia, servirebbero dei genitori che pretendessero cultura e non assistenza sociale, servirebbe un’opinione pubblica preoccupata dei propri futuri cittadini ed elettori. Ma i primi sono stati eliminati dalla cultura orizzontale contemporanea, i secondi pensano perlopiù a costruire percettori di reddito (non sanno che non sarà possibile) e non persone, e la terza, figura ormai mitologica, va cercata tra coloro che non siano stati rimbecilliti dalla medesima visione del mondo finto innovativa e finto efficiente che grava sui docenti o non inseguano misteriosi complotti che possano restituire al mondo una compiuta leggibilità, anche al prezzo di farne un feuilleton di basso profilo.