Aldous

Circolari ipnopediche

SI SCRIVE MERCATO MA SI LEGGE VIOLENZA

 

Ogni volta e troppo spesso, quando le notizie di cronaca mettono in scena il teatro dello sdegno per l'orrore consumato, inizia la rituale retorica delle istituzioni e l'immediata quanto impotente reazione emotiva dei cittadini che, da comprimari, incarnano la frustrazione dell'inutilità. Un tempo, dietro la spinta di una parte non marginale della società civile, il ceto politicante poteva almeno ripiegare su una parvenza di credibilità per esorcizzare la vergogna, se mai ce ne fosse stata traccia. Oggi quello sforzo serve all'intera catena istituzionale per allestire comparsate e vuote dichiarazioni di principio senza conseguenze o con atti privi di ogni coerenza. Un "oggi" che non riguarda solo l'attuale compagine governativa ma anche tutto ciò che ha permesso ad una delle peggiori classi dirigenti, per impreparazione e idee, di affossare le energie del paese con l'asservimento a diktat sovranazionali, in imperturbabile continuità con altri governi che l'hanno preceduta.

Ciò che non va perso di vista per tenere insieme il macro e il micro-caos è il volto della violenza che ha accompagnato la metamorfosi della società dagli anni Ottanta fino a intossicarla in modo capillare. In questi giorni si è ricordato il cinquantesimo anniversario del golpe cileno da molti giudicato come il primo esempio di sovvertimento di un regime democratico "manu militari" per instaurare l'ordine economico liberista teorizzato dalla Scuola di Chicago. Ma quello schema, pur in scala ridotta e non per questo meno feroce e carico di conseguenze, lo abbiamo conosciuto anche in casa nostra in un luogo e in un tempo precisi: Genova 2001.

La violenza, si sa, da sempre ha svolto un ruolo rilevante negli affari umani, sotto svariate forme.  L'Italia ne ha conosciute di tremende tra terrorismo, stragismo e trame oscure. Ma quella stagione è tramontata per inaugurare un altro filone di violenza che, nello specifico, ha attaccato e stravolto il rapporto tra economia e politica, i fattori strutturali della convivenza umana. A Genova la politica nostrana, ma già globalizzata negli intenti, decise di spogliarsi anche della parvenza di sé, firmando la delega in bianco al capitalismo globale dell'ideologia neo-liberista, dove "neo" annunciava la radicalizzazione di ogni suo nefasto principio. Non per caso i manifestanti di Genova erano chiamati no-global, giovani e meno giovani portatori di istanze per l'ambiente, per la giustizia sociale, per l'internazionalismo solidale, per la protesta contro un sistema di cui erano già chiari gli sviluppi. Furono massacrati con una violenza che non aveva più bisogno delle stragi di matrice politica dove i volti delle vittime sono fuori dalla vista dei carnefici. A Genova la violenza è stata corpo a corpo ma uno dei due era inerme sotto gli occhi del suo aguzzino. Come hanno potuto reggere lo sguardo incredulo, smarrito, terrorizzato di tante persone che manifestavano per la qualità della vita di tutti, per la ricchezza dei popoli più che delle nazioni, per il bene totale che è ben diverso dal bene comune e anche per coloro che li stavano torturando?

Dopo Genova la politica non è stata più attingibile per i comuni cittadini che adesso si chiamano consumatori, risorse (umane?), elettori, follower, popolo, gente, massa. Dietro questa trasformazione nominalistica, si sono persi le persone, i militanti, i giovani che se possono se ne vanno, gli intellettuali di tempra. Non hanno smesso di pensare e di lottare ma si muovono in ordine sparso, tollerati strumentalmente quando non derisi dal pensiero unico e di fatto privati della forza necessaria a scuotere le coscienze. Rafforzata da quella mediatica, la violenza fisica ha spezzato il legame tra il pensiero e la fiducia di poter agire collettivamente in opposizione all'esistente.

Qualcosa, tuttavia, dovrebbe stridere nell'opinione pubblica se nel 2001 i manifestanti pacifici che chiedevano giustizia sociale sono stati massacrati mentre, a distanza di oltre vent'anni, nei santuari del neoliberismo si ascoltano e si applaudono le denunce di facciata del "purché sia green" e scorrono lacrime ministeriali questa volta per le turbe giovanili di ecoansia, per dirne una. Forse la coscienza di ciò che sta accadendo non è del tutto chiara perché l'origine del male è risalente e pervade silenziosamente gli interstizi della società.

Che sia la morte per il lavoro, che siano lo stupro, il bullismo, l'assassinio per futili motivi, la segregazione pseudo sanitaria, l'allargamento dello stato di indigenza, l'annegamento dei migranti o il carcere come risposta; che sia lo stordimento da qualunque dipendenza, compresa quella per l'ossessione di sé, ognuna di queste forme ha il denominatore comune nella violenza diretta contro la persona, contro qualcuno che può guardarsi ed essere guardato almeno per un istante negli occhi. Per inciso, l'arroganza della rottamazione per indicare l'avvicendamento senza onore degli avversari della propria parte politica, denuncia la violenza verbale dello sprezzo, ad personam, appunto.

La scomposizione dei fatti sottoforma di episodi emergenziali, l'alibi delle mele marce, dei mondi emarginati e colpevoli, impedisce la visione d'insieme, tipizza le vittime consegnandole ai pareri degli esperti e scarica sulla scuola l'onere di metterci una pezza. Per dirla più chiara, si chiede ad un'istituzione già drenata da anni di mezzi finanziari e del prestigio sociale di farsi carico dei guasti di un sistema avvelenato, magari con interventi di sensibilizzazione a tema, sciorinando istruzioni politicamente corrette e calibrate per ogni specifica "emergenza".

Ciò che viene nascosto dietro il sensazionalismo della cronaca è la cornice sistemica. La risposta della "stesa" a Caivano ne è la rappresentazione classica da serie TV: questo è il nostro territorio, è la nostra "piazza affari", dove il potere si mantiene con il terrore e la violenza sui più deboli per far capire chi è che comanda, dove si spaccia quella cosa che tanto piace ai piani alti della società così da competere ed essere performanti come vuole il mercato. Non che la responsabilità dei fatti criminosi sia impersonale, c'è sempre una scelta, un'alternativa per l'agire che ci interroga personalmente; tuttavia pare evidente che ogni storia individuale risente dello spirito del tempo e del luogo. E il nostro è il tempo-luogo dello strapotere del liberissimo mercato e delle sue ostentazioni di ricchezza. Non sono ammesse limitazioni alla sua pervasività e perversione, costasse pure vittime innocenti. E la violenza paga.

È parziale e rassicurante ricondurre alla violenza sessuale i fatti di Parco Verde dove le ragazze potranno presto indossare la minigonna senza correre rischi! - a Parco Verde, un quartiere nato già come terra di nessuno dentro Caivano. L'orrore è ancora più insopportabile se lo si legge per il molto altro che è, come presidio armato di un territorio che dà enormi profitti e potere e dove nessun altro ha licenza di entrare. La violenza, nel nome dell'unico e assoluto dio-mercato, governa dunque le periferie allo stesso modo in cui ha soggiogato, in altri tempi e in altri luoghi, intere nazioni. Del resto, uno studioso di mafie del calibro di Isaia Sales ha già chiarito da tempo che l'economia criminale è contro le leggi dello stato ma non contro quelle dei mercati. La politica finge di non saperlo e, indipendentemente dalla prospettiva ideologica dichiarata, ha scelto da decenni di non rispondere, come la spietatezza del mercato le ha imposto.