OGGI SI MUORE COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI
“Il giorno successivo non morì nessuno”. Questo è l’incipit del capolavoro di Josè Saramago “Le intermittenze della morte”. In una nazione non meglio identificata dal primo gennaio nessuno muore più. Nessuno più perché, semplicemente, la Morte ha smesso di fare il suo lavoro. Invece, appena fuori dal confine, il ciclo procede normalmente. L'avvenimento suscita nel popolo sentimenti di trionfo e felicità e per le strade avvengono manifestazioni di patriottismo, perché la continua ricerca dell'immortalità ha avuto termine. Superato il primo momento d'euforia, si manifestano i primi problemi: nelle agenzie di pompe funebri e nelle compagnie d'assicurazione restano senza lavoro migliaia di lavoratori e di imprenditori; alle case di riposo si continuerà a badare ad anziani sempre più vecchi ed in quantità sempre maggiori, nelle case e negli ospedali ci saranno persone in condizioni terribili, incapaci di guarire, ma ora anche di morire. Perfino le comunità religiose, fra cui la Chiesa, sono seriamente preoccupate per l'assenza della morte: infatti, senza lei non ci può essere resurrezione e senza resurrezione non c’è più chiesa. In seguito, nel racconto tuttavia, si scopre che basta portare il moribondo fuori dal confine per porre fine alle sue agonie, e così la mafia, anzi, "la maphia e i suoi maphiosi", come indicato nel libro, comincia ad organizzare viaggi, per far raggiungere la condizione di “caro deceduto”, con garantita sepoltura appena fuori dal territorio nazionale. Abbiamo voluto introdurre il tema di quest’articolo con le parole di Samarago perché la morte rimane l’assillo e la certezza più grande senza soluzione per l’essere umano. Come ogni essere vivente, l’uomo subisce la morte, ma a differenza di tutti gli altri la nega. Come affermò il filosofo francese Edgar Morin: “La morte è l’avvenimento più naturale ma anche culturale, quello da cui nascono i miti, i riti e le religioni”. Negli ultimi decenni abbiamo denunciato una campagna di rimozione forzata dell’idea di morte. Più che la morte abbiamo vissuto nevrosi di morte. La posizione intellettuale del XXI secolo oscilla in un precario equilibrio fra il non pensarci e quella di esserne ossessionati. Nel mezzo quella che sta perdendo valore è la vita. In altre parole, si sta perdendo il saper vivere. Per non pensare alla morte si vive in una bolla d’illusione dove la morte che fa parte della vera vita c’è ma non si sente. Philippe Ariès racconta che la morte nei secoli passati, quando arrivava era sentita e ci si preparava. Una vita vera si concludeva con una vera morte.
Entrando nel periodo chiamato edonismo “reaganiano” vi è stata una progressiva rimozione dell’idea di morte. Una negazione del momento più alto della vita di ogni individuo: il trapasso verso il mistero che annienta il pensiero umano. Cosa ci sarà dopo la morte? I guru del capitalismo consumista hanno deciso che è meglio non pensarci e immaginare la vita come un eterno presente, dove non solo non si deve parlare di morte ma neanche di vecchiaia. Purtroppo per questi guru da Truman show nel mondo si continua a morire sia per le calamità ambientali sia per quegli anacronistici scontri chiamati guerre. Allora dato che non si è potuto annullare il momento della morte si è ben pensato di farlo diventare show business.
In una puntata dei Simpson, Homer dice che a volte far stare male gli altri aiuta a far star bene se stessi. Potremmo da qui far iniziare un fenomeno antropologico che chiameremmo Sadismo Sociale? Come i più sapranno il termine Sadismo fu introdotto nella sua Psychopatia sexualis dallo psicoanalista Krafft-Ebing ed è una derivazione dal cognome del Marchese De Sade che descrisse in modo “chirurgico” nei suoi scritti per secoli proibiti (collocati e nascosti nel famigerato Enfer della biblioteca nazionale francese), queste attività dis-umane per raggiungere il piacere con l’apoteosi del vizio. Il sadismo viene definito una parafilia sessuale dove il soggetto che ne è affetto gode fisicamente ovvero raggiunge l’orgasmo nel veder soffrire il suo partner/oggetto sessuale. Per estensione, il sadismo è una crudeltà gratuita, il piacere fine a se stesso di fare del male con gesti, parole o anche umilianti e pesanti fatiche. Per chi fosse interessato ci sono molti studi psicoanalitici sul perché si diventa sadici, sicuramente tutti concordano che alla base c’è una deprivazione emotivo-affettiva.
Di questo fenomeno sociale in ogni momento della storia dell’umanità abbiamo testimonianze. Dal mondo greco antico con le Tragedie che rappresentavano le disgrazie altrui in una sorta di immedesimazione del pubblico per scaricare le tensioni emotive dei presenti e affidarsi al “Deus ex Machina” al più pragmatico popolo romano che aveva spostato lo spettacolo dalla rappresentazione greca esistenziale alle arene, dove la vita non dipendeva più dal fato ma dall’imperatore che aizzato dalla folla diventava arbitro delle vite altrui. Nel corso della storia altri momenti di giubilo sadico sociale sono stati sicuramente le esecuzioni capitali, (impiccagioni, ghigliottinaggi, fucilazioni roghi) dove in nome di una presunta giustizia si poteva godere della morte con sofferenze del cattivo di turno. Dopo la seconda guerra mondiale si disse basta alle violenze e torture. L’epurazione ebrea da parte dei nazisti con la scoperta scioccante dei campi di concentramento superò di molto gli incubi più arditi e si gridò “mai più crimini contro l’umanità”. Ma il capitalismo salvifico dell’individualità e del profitto ha logorato nel tempo, come fa il tarlo con il legno, il senso di solidarietà umana. Non riuscendo ad eliminare il vizio sadomasochistico di fare guerra, di essere homo homini lupus, non riuscendo ancora a dominare la dimensione del cervello rettiliano da parte della corteccia pre-frontale dove risiedono le alte sfere cognitive, allora si è deciso che bisogna raschiare il barile, e come abbiamo già scritto la morte diventa show business.
Non interessa più cosa c’è dopo la morte. L’ossessione della morte è stata sdoganata. Dopo due anni di pandemia e sul filo di una nuova guerra quell’equilibro fra la difesa della vita e l’autodistruzione è saltato. La cultura della morte non come accettazione vitale ma sempre nell’ottica del possesso e del dominio ha preso il sopravvento. Godiamo nel veder morire. La prima foto di Frank Capa che riuscì a carpire il momento del trapasso del soldato colpito ne rappresentò la sacralità. Oggi invece si vive come in un videogame la morte provocata da tragedie. Sembra quasi ci sia un sadico progetto nel lasciare attraversare le carrette del mare piena di esseri umani per vedere se riescono a farcela. Non vogliamo accettare neanche il momento ignoto della nostra morte la vogliamo pilotare con l’eutanasia. Il suicidio come atto estremo “masosadista”. Controllo, controllo e ancora controllo e più cerchiamo di controllare e meno abbiamo senso della nostra vita. Più godiamo di sopravvivere agli altri e meno godiamo delle nostre azioni. Circondati dalle morte altrui non riusciamo ad avere meno paura per la nostra morte che anzi aumenta e cerchiamo di aggrapparci ad un cinismo infantile che ragiona per blocchi di pensiero megalomane.
Esiste una via d’uscita? “Ora è giunto il tempo di un nuovo salto evolutivo, quello volto a comprendere che l’universo non è un luogo dove l’io si possa comportare da padrone assoluto, ma un ambiente nel quale è fondamentale imparare a ‘collaborare’e a muoversi con meraviglia, rispetto, cura e devozione” scriveva qualche anno fa il neuropsicologo Franco Fabbro. Coltivare l’umanità attraverso delle terapie spirituali potrebbe essere una delle risposte.