Aldous

Circolari ipnopediche

LA VERITÀ, DISPERSA AL FRONTE

«Il destino della parola, di ciascuna parola del nostro linguaggio si muove tra fissità etimologica e mutevole storicità dei significati. Ètimo indica – come appunto si svela nell’origine greca – il “vero”, l’originario significato, il bisogno esistenziale che la parola ha soddisfatto al principio del suo cammino. Ma la parola assai spesso sfugge all’ètimo e cammina con sciolta libertà: è usata e poi lasciata cadere in oblio, volta a nuove accezioni e congiunta con altre, inserita nella frase e nei contesti del discorso: insomma, si carica di tempo, e fa tutt’uno con l’essere storico dell’uomo. I significati storici, sovrapponendosi al significato etimologico (il quale è anch’esso storico, ma quasi di una remota e perduta antichità) sollevano la questione della “proprietà” della parola».

Questa riflessione, di esemplare chiarezza, di Natalino Irti, insigne studioso di diritto, focalizza uno dei fenomeni più rilevanti cui soggiace ogni lingua: lo slittamento semantico che le parole subiscono nel tempo, e specialmente le parole del lessico politico (non solo quelle delle categorie generali, come democrazia, libertà, giustizia, ma soprattutto la vasta gamma di quello che possiamo chiamare ‘linguaggio dei valori’), per i fini propagandistici cui i detentori del potere le piegano. In caso di guerra, poi, quello slittamento si esaspera a tal punto che la prima vittima delle parti in lotta è la verità.

Che sia così, prova lampante ne sono, in queste drammatiche ore, le notizie che rimbalzano dalla Russia e dall’Ucraina (al netto, ovviamente, sia dell’oggettiva responsabilità di Putin nell’aggressione criminale dell’Ucraina, sia del dovere di accertare, senza animosità né pregiudizi, la “causa verissima” di quella aggressione).

Il problema è antico. Infatti, se lo pose già Tucidide, raccontando la guerra trentennale tra Peloponnesiaci e Ateniesi; e lo riprese, alcuni secoli dopo, un suo emulo, Sallustio, raccontando la drammatica seduta del Senato romano in cui si decise la sorte dei seguaci del colpo di Stato, tentato da Catilina, ma sventato dal console Cicerone (63 a.C.).

Per la rigorosa lucidità con cui è analizzato il fenomeno, sono giustamente celebri le pagine dedicate da Tucidide (“Storie”, III, 82 ss.) ai molteplici sconvolgimenti provocati dalla guerra civile a Corcira. Siamo nel quinto anno di guerra (427 a.C.): a Corcira, recuperata dai democratici dopo un colpo di mano degli oligarchici, sta per giungere una flotta ateniese e la flotta peloponnesiaca abbandona l’isola. I Corciresi allora approfittano per sbarazzarsi di tutti i nemici, compresi quelli che, supplici, si erano rifugiati nel tempio di Era, i quali furono condannati a morte o si suicidarono in massa. Furono sette giorni di stragi, in cui ogni sorta di delitto fu ritenuto legittimo: «Ma la guerra, portando via le comodità delle consuetudini d’ogni giorno, è maestra di violenza, e rende conforme alle circostanze l’indole dei più. […]. Cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente indugio viltà sotto una bella apparenza, la moderazione schermo alla codardia, e l’intelligenza di fronte alla complessità del reale inerzia di fronte ad ogni stimolo, l’impeto frenetico fu attribuito a carattere virile, il riflettere con attenzione fu visto come un sottile pretesto per tirarsi indietro. Chi inveiva infuriato, riscuoteva sempre credito, ma chi lo contrastava, era visto con diffidenza. […]. Causa di tutto ciò era l’aspirazione al dominio per cupidigia e ambizione e le ardenti passioni che ne nascono quando si vuole vincere a tutti i costi. Infatti i capi delle fazioni cittadine, facendo uso gli uni e gli altri di parole speciose, preferendo parlare di uguaglianza di diritti politici del regime popolare, e di governo moderato dell’aristocrazia, a parole servivano lo Stato, in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara; e lottando senza esclusione di colpi per poter avere il sopravvento gli uni sugli altri, essi osarono le azioni peggiori, e compirono vendette ancora più atroci…».

Attento studioso di Tucidide, in un passaggio dell’infervorato discorso in cui, in Senato, Marco Porcio Catone, strenuo difensore della repubblica dei nobili e dei benestanti, proporrà la pena di morte, in opposizione a Giulio Cesare, paladino dei meno abbienti, e alla sua proposta, improntata a clemenza, di confiscare gli averi dei congiurati e di mandarli prigionieri nei municipi più capaci di sorvegliarli, Sallustio mette in bocca a Catone la frase tucididea sullo stravolgimento del significato subìto dalle parole in quella grave crisi politica sfociata nella guerra civile: «Più volte, Padri Coscritti, m’è accaduto di parlare a lungo in vostra presenza. Spesso ho deplorato il lusso, l’avidità dei miei concittadini e per questa ragione mi sono fatto molti nemici. Io, che non mi sono mai perdonato una mancanza, nemmeno nel pensiero, non sapevo perdonare ad altri gli eccessi di edonismo. Voi non avete dato peso alle mie parole, ma la repubblica era salda. La sua ricchezza tollerava la rilassatezza. Ma ora non si tratta di sapere se vige la morale o il malcostume, né quanto sia grande e potente l’impero romano, ma se questi beni, comunque si voglia valutarli, resteranno nostri o cadranno nelle mani dei nemici insieme a noi. E c’è qualcuno che ci viene a parlare d’indulgenza, di clemenza? da tempo invero s’è perduto il significato delle parole: dilapidare il denaro altrui si chiama generosità, la temerarietà è chiamata coraggio. Ecco perché la repubblica è agli estremi» (“La congiura di Catilina”, cap. 52, 7-12).