Aldous

Distopie

SLITTAMENTI ANCILLARI

Ciò che è messo alla porta può sempre rientrare dalla finestra. Mentre dormivamo sognando la libertà acquisita e il suo progresso infinito, rampollava da un politicamente corretto, ampiamente distorto e abusato, per via di rimbalzi illiberali, un rinnovato puritanesimo (formato stelle e strisce e prontamente riadattato alla luce dei colori d’Europa) che ha travolto tutti e tutto. Nella morsa di un gregarismo massificante sono finiti (affascinati? ricattati?) persino ambiti culturali come la letteratura e la cinematografia che riconoscevamo come i luoghi votati al critico scandaglio dei sintomi e delle cause agenti nel tempo in cui ci troviamo a vivere. Avvitati in un meccanismo suicidario di auto-esproprio della pratica del dubbio e dell’analisi, hanno preso a dar vita a produzioni frutto di una ricezione acritica, parziale e direzionata. 
In un tempismo che ha dell’incredibile, nel 2017, si colloca l’emblematica prima stagione della rivisitazione seriale dell’opera di Margaret Atwood, “Il racconto dell’ancella”. A far da cornice, una dimensione congiunturale degna del più distopico scenario: il gran teatro del mee too, la messa in moto della macchina della cancellazione che, in un processo giustizialista fai da te versione social, assieme al colpevole artista pone alla sbarra anche la sua colpevole arte. E ancora: la gogna mediatica per quanti osano, più o meno timidamente, levare la propria voce a dissenso e, per non farsi mancare nulla, proprio nulla, le imperdibili guide dei termini politicamente corretti con infiniti elenchi di parole da mettere al rogo sempre però, minuziosamente accompagnati, dal loro consono corrispettivo (generoso gesto di aiuto per il corretto allineamento di noi poveri disinformati!). Dietro tutto, tronfia, una politica che ama dirsi progressista, del tutto dimentica ormai delle questioni socioeconomiche che determinano la vita reale (volgare questione quest’ultima, dalla quale noi facciamo ancora fatica a liberarci!). Insomma, il trionfo degli orpelli - meglio chiamarli distrattori -, della forma sulla sostanza.
Questo il quadro. Ci si sarebbe dunque aspettato che, nel bailamme, prendesse vita un onesto tentativo di sfrondamento per andare al fondo delle questioni. All’appello, stando agli unanimi consensi e ai commenti entusiastici, pare dunque abbia risposto “I racconti dell’ancella”, riuscendo secondo alcuni ad “attualizzare il libro, mettendo in luce le contraddizioni della società moderna”. 
Ora, si sa che ogni trasposizione cinematografica dell’opera scritta, proprio perché tale, segue regole e tempi propri, opera posposizioni e anticipazioni rispetto all’originale, rivolge la propria attenzione a un mercato maggiormente esteso e a esso risponde. Non stupisce così di dover osservare, nel nostro specifico caso, come l’intera narrazione testuale venga fatta fuori già alla prima stagione, (a fronte di tre prodotte e una quarta in arrivo) né che in essa si dia spazio ad avvenimenti inventati per la serie. Non sorprendono nemmeno gli incisi e le virate (storyline collaterali), inserite a chiarimento di fatti e personaggi del romanzo che, ammantati da certa nebulosità, diversamente su schermo mal funzionerebbero. Eppure, una nota piuttosto stridente e che mal si soddisfa con le esigenze appena considerate, c’è, ed è anche bella grossa.
Mi riferisco agli oggetti, il cosa e il come, che sostanziano la pur necessaria attualizzazione di certe opere letterarie su schermo. I numerosi slittamenti, realizzati rispetto all’opera originale di Atwood conducono certamente oltre il testo, ma per andare dove? L’impressione, è che ci si tenga a una certa distanza di sicurezza dall’approfondimento in merito ad alcuni temi. Questa questione si fa più chiara col succedersi delle stagioni della serie. Contrariamente al libro, dove i toni sono per lo più sussurrati, si assiste a una crescente modificazione dello stesso linguaggio dei protagonisti. Esso, infatti, si fa sempre più aggressivo, a tratti sfiora il turpiloquio, rimandando lo spettatore all’inasprimento esponenziale dei toni dello scontro sociale in essere. Peccato, che nulla intervenga a contraddire modalità e termini che sono il chiaro indice di una chiusura al dialogo. Alla radicalizzazione di ben note posizioni, alle censure del pensiero che animano la contemporaneità corrisponde, nella rappresentazione di Miller (ideatore della serie), una loro pedissequa trasfigurazione. 
Dal romanzo emerge un mondo distopico, che suggerisce una già avvenuta discriminazione etnica (la popolazione infatti è formata da soli bianchi) e un ruolo centrale viene assegnato dall’autrice a un altro tipo di discriminazione, quella di genere. In un chiaro superamento dell’intenzionalità della stessa e in seguito a un’operazione di calco dal mondo contemporaneo, nella serie televisiva veniamo immersi in un mondo multietnico che, bisogna dirlo, sembra essere lì solo perché è corretto che vi sia. È lì, ma stando ben attenti a non fare emergere quei contrasti tipici di una dimensione tanto composita, come di fatto avviene. Uno slittamento dall’opera originale, giusto per fare un giretto per le vie del politically correct. 
È attraverso i personaggi però, che assistiamo alla perfetta declinazione di quest’ultimo. Ad un’attenta osservazione del personaggio di Moira (amica della protagonista), rileviamo nello scritto una fisionomia delineata lungo tre direttrici: è donna, è bianca, è ben più risoluta della protagonista stessa. Dopo la mutazione genetica, operata ai fini della rappresentazione seriale, riscopriamo Moira, portatrice di una quadruplice connotazione: è donna, è risoluta, è nera ed è pure lesbica. Tutto questo andrà anche bene, ma cosa soddisfa una tale esigenza? Scopriamo la funzionalità di una simile operazione quando, nella serie, entra la questione della genitorialità che si risolverà nel modo meno disturbante per lo spettatore medio. Lapalissiano è il modello di maternità/genitorialità assunto qui come indiscutibile, (le perplessità iniziali e i timori di Moira non aprono mai ad un serio contraddittorio). Ancora uno slittamento dunque. Eppure viene da chiedersi: cosa sarebbe accaduto se questo slittamento avesse portato altrove? Cosa sarebbe accaduto se Moira avesse scelto diversamente, magari supportando la sua scelta esplicitandone le ragioni? Come sarebbe stata digerita una tale scelta dal nostro contesto sociale? Inutile, dovremo tenerci la curiosità. Per la provocazione che voglia battere ardui sentieri non c’è spazio. 
È comunque con Difred, la protagonista, che si chiude il cerchio. La natura gregaria e l’immobilismo di una donna impegnata a sopravvivere all’orrore, interessata da un dialogo tutto interno, che tra sprazzi di lucidità e obnubilamento, sembra in alcuni momenti pronta a varcare la soglia di un reparto di neuropsichiatria (ma pur sempre e comunque in grado di esprimere quasi un diritto alla fragilità, alla contraddizione), nella versione tivù non trova più ragion d’essere.
Essa, soprattutto a partire dalla seconda serie, è stata fagocitata, da un’altra “Difred” Un ibrido, tra una donna vendicativa e una guerrigliera. Una donna, che solo e in quanto portatrice di queste caratteristiche può essere riconosciuta come donna compiuta, risolta, nonostante l’orrore, nonostante tutto. La protagonista principale nella serie è la sola personalità che può ribellarsi nei termini in cui si ribella, la sola che può assumere su di sé il compito di sfidare un intero sistema
Alla leader resistente e strategica, non certo alle altre ancelle le cui personalità sono in fieri, perché interrotte dalla paura, dal dubbio o persino dalla voglia di resa, si offre il metodo corretto per attuare l’opera di scardinamento dell’impalcatura politica in atto. Soltanto a lei si riconosce di poter salvare il domani di tutti in una platealità forzuta che ne conferma gli stessi caratteri distintivi. Dunque, è una donna che salva il mondo, non più in quanto donna, come nel testo, ma perché donna con precipue caratteristiche. Un personaggio quindi, che pur nella rappresentazione del dolore patito, per paradosso, risulta necessariamente azzerato nei suoi processi dubitativi interni. È indiscutibile qui, la giustapposizione di un modello di donna che va per la maggiore e conseguentemente, come Difred, incarni lo stereotipo della donna contemporanea. Altrettanto innegabile poi, che l’opera di ricezione compiuta non avvenga certo in direzione della complessità. Gli stessi personaggi maschili nel testo scritto vengono indagati funzionalmente nella veste di carnefici, sia allo scopo di evidenziare le ingiustizie dell’uomo perpetrate a danno delle donne, sia per veicolare l’idea di un potere, tutto al maschile, responsabile dei diritti ad esse negati. Nella rivisitazione seriale si dà voce anche a dei personaggi maschili, anch’essi vittime del potere, anch’essi sofferenti. Eppure, la loro voce rimane flebile. Nel loro dialogo con l’universo femminile, a dispetto della forma, essi esprimono comunque una relazione asimmetrica, come per un di meno che li riguarda, che è loro proprio. La loro fisionomia è, per così dire, ancillare alle fisionomie femminili. In realtà la spiegazione d’inserire più in luce queste figure di uomo, vorrebbe esprimere un assunto: laddove non è riconosciuta la donna, tutti si ritrovano a soffrire (escludendo le élites di potere, ovvio). Eppure, questa operazione, affiancata a quanto osservato prima, non risulta bastevole al messaggio di apertura al dialogo nelle relazioni di genere. Lo stesso Nick Blaine, nuovo amore di Difred, soprattutto nella versione tivù, funge più da potenziatore di alcuni caratteri dominanti della protagonista che, ne influenzano il modus faciendi all’interno della stessa relazione amorosa. 
Slittamenti dall’opera originale quindi, che conducono a dover considerare quale sia il ruolo operante nella nostra contemporaneità di una serie televisiva come “Il racconto dell’ancella”. La risposta è nelle donne che già, da qualche anno, per le strade d’Europa manifestano indossando (non solo fisicamente) i panni di questa protagonista. Slittamenti, che portano a chiedersi: quale fortuna avrebbe mai avuto questa serie televisiva, se in essa si fosse scelto di percorrere sentieri meno sicuri e comodi, più provocatori nella sostanza piuttosto che non nella forma? La risposta è sotto gli occhi di tutti. Non lo è credo, il bisogno urgente di dover inaugurare una nuova stagione della cultura. Una cultura, non ossequiante, che non abbia il timore d’indagare il retropensiero di certi fenomeni che accoglie e rappresenta. Coraggiosa, al punto da voler chiamare questo retropensiero col proprio nome: Pensiero Unico.