Aldous

Distopie

BUON COMPLEANNO LUCIANO!

Nel 2015, la casa editrice Clichy pubblicò un libretto imperdibile, «Il precario esistenziale», curato da Gian Paolo Serino. Il titolo era cucito su misura addosso a Luciano Bianciardi, il vero e ancora insuperato rivoluzionario della letteratura italiana (ma anche del giornalismo), uomo che della libertà e dell'anarchia fece la sua bandiera e che “non voleva la rivoluzione, voleva la più grande delle rivolte: la coerenza di ciascuno di noi”. Perciò la sua rabbia contro la “recita quotidiana che ognuno di noi mette in scena ogni giorno” (Serino).

Nato a Grosseto giusto cento anni fa, il 14 dicembre 1922, fervente ammiratore del Risorgimento e di Garibaldi, dopo che, a otto anni, ebbe letto “I Mille” di Giuseppe Bandi (si veda il suo «Ai miei cari compagni – Diario inedito di un neo-garibaldino», Castevecchi 2007), Bianciardi indicava come suoi maestri «Giovanni Verga, catanese. Seguo invano le sue tracce fin da quando avevo diciotto anni. Carlo Emilio Gadda, milanese, tuttora insuperato». Sul piano etico-politico e civile, fondamentale la lezione, alla Normale di Pisa, di Guido Calogero, e la conseguente iscrizione al Partito d'Azione, di cui lamentò la rapida caduta «per le contraddizioni interne e per l'incapacità ormai accertata del nostro ceto, privo di contatti con gli strati operai». Dopo aver conseguito la laurea in filosofia con Guido Calogero con una tesi su John Dewey e avere per qualche anno insegnato, nel 1951 Bianciardi accetta l'incarico di direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto. Allora – come raccontò la figlia Luciana in un'intervista rilasciata a Mirella Serri per «Tuttolibri-La Stampa» il 31 marzo 2018 – «inventò il Bibliobus. Con un furgoncino del Comune distribuiva libri nei casolari dispersi in campagna. Purtroppo i tomi prestati non tornavano quasi mai indietro. Con gran fastidio dell'amministrazione della cittadina Luciano sosteneva: meglio un libro rubato che un libro mai letto».

Qualche anno dopo, il 4 maggio 1954, l'evento che sconvolse la vita provinciale di Bianciardi: l'esplosione, a Ribolla, della miniera gestita dalla Montecatini in cui morirono 43 operai. Fu allora che decise di trasferirsi a Milano, aderendo all'invito di Antonello Trombadori di partecipare alla fondazione di una nuova casa editrice, la Feltrinelli. Qui comincia la sua estenuante attività di traduttore, soprattutto dall'inglese, dal suo preferito, Henry Miller, detto Enrico Molinari, da New York, che ebbi la fortuna di tradurre e di conoscere personalmente», a Saul Bellow, da Stevenson ad Irwin Shaw, a Faulkner e tanti altri.

Niente spiega l'anticonformismo radicale di Bianciardi meglio dell'aneddoto raccontato dalla figlia Luciana alla Serri che le chiedeva se i rapporti del padre con Giangiacomo Feltrinelli fossero d'amore e d'accordo: «Per nulla, mio padre era allergico a tutti gli stereotipi, anche a quelli di sinistra. Una sera arriva in riunione il Giaguaro, così papà chiamava Feltrinelli, con un bellissimo cappotto di cammello. E comincia a parlare di giustizia sociale e di lotta. “Quel che è mio è di tutti”, afferma. Mio padre si alza, prende il soprabito di Feltrinelli ed esce. Per due anni è andato in giro con questo pastrano sostenendo: “Me l'ha regalato il Feltrinelli perché lui alla lotta di classe ci crede veramente”». Nel 1957, Giangiacomo lo licenzia “per scarso rendimento”!

Intanto, oltre a collaborare con giornali e riviste, Bianciardi scrive romanzi, la cosiddetta “trilogia della rabbia”, a forte componente autobiografica: «Il lavoro culturale», Feltrinelli 1957, «L'integrazione», Bompiani 1960, «La vita agra», Rizzoli 1962, il suo capolavoro, in cui racconta l'intenzione del protagonista di attuare un attentato al Torracchione dove aveva sede la Montecatini.

Con «La vita agra» arriva il successo, ma Bianciardi non cede alle lusinghe del denaro. Rifiuta l'allettante invito di Montanelli a collaborare stabilmente col «Corriere della Sera»: trecentomila lire per due pezzi al mese per la terza pagina. Bianciardi non ha mai guadagnato tanto. Ma la coscienza gli fa dire di no e all'amico Mario Terrosi scriverà: “Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro”. A Milano frequenta i luoghi in cui si ritrovavano scrittori, giornalisti, fotografi (Ugo Mulas, Mario Dondero), cantanti e soprattutto pittori (Piero Manzoni, Ennio Morlotti): Brera e il bar Giamaica, dove tra il fumo delle Nazionali senza filtro, che gli procurò una bronchite cronica, e i bicchieri di grappa comincia la sua discesa verso l'inferno. Che si concluderà il 14 novembre del 1971, un mese prima di compiere 49 anni.

Con «L'integrazione», in pieno boom economico, Bianciardi anticipa di vent'anni il Pasolini degli “Scritti corsari”: «Questi sono i ceti medi italiani, avviliti dal padrone, e insieme sollecitati a muoversi nella direzione che più fa comodo al padrone. Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera, per comprarsi quello che credono di desiderare: in realtà quello che al padrone piace che si desideri. E qui non c'è nemmeno tragedia, capisci?».

Denuncia gli effetti perversi della televisione: «La televisione non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, indurre ai consumi e formare opinioni. Perché l'uso della televisione è gratuito. Non si paga. Però si sconta» (da “Carosello a Manhattan”, in «Notizie Letterarie», 1965). «Se vogliamo che le cose cambino, inutile occupare le università, occorre occupare le banche e far saltare la televisione. Non c'è altra possibile soluzione rivoluzionaria» (da «Il Guerin sportivo», 1968).

Intanto, crescono la rabbia e il fastidio verso Milano, «solo una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata. Eppure tutti si ostinano a dire che è il cuore d'Italia». Così, nel 1964, decide di trasferirsi a Rapallo.

Nel 1965 subisce perfino un processo per il racconto “La solita zuppa”, inserito in una raccolta di racconti di altri undici scrittori, «L'arte di amare», edito da Sugar. Siamo in un'Italia democristiana, bacchettona e clericale (bacchettona perché clericale), e il racconto di Bianciardi cade nelle grinfie del censore che lo accusa di offesa al pudore e vilipendio della religione di Stato. Nel 1966, sarà assolto per l'offesa al pudore e amnistiato per il vilipendio (l'intera vicenda si può ora leggere nel libro curato dalla figlia Luciana, «Imputati tutti», ExCogita 2022).

A Milano tornerà solo nel 1971. Per morirvi.