Aldous

Distopie

COLONIZZATI DAL PEGGIO

Come è stato possibile che le scuole e le università dell’occidente anglosassone (USA e UE) siano pervenute allo stato di morte cerebrale nel quale versano? Quali fattori storici, prospettive pedagogiche, dinamiche sociali e mediatiche hanno condotto a un esito che si può certamente definire tragico per le nostre società?

Un libro di quasi trent’anni fa, tradotto soltanto ora in Italia, risponde a tali domande con una chiarezza persino lancinante. Eric Donald Hirsch mostra, sulla base di una documentazione amplissima e rigorosa, che quanto i pedagogisti che si autoproclamano ‘progressisti’ spacciano come ‘novità’ sono idee in realtà assai vecchie. Esse si riassumono in due prospettive: il formalismo dell’‘imparare a imparare’ e il naturalismo che ritiene bene tutto ciò che nel bambino non subisce l’intervento dell’educatore.

Per quanto riguarda il formalismo, «sapere come imparare» è «un’abilità astratta che neanche esiste» e che tuttavia viene ritenuta da molti pedagogisti (e anche insegnanti) «più importante che avere un ampio fondamento di conoscenze fattuali che davvero consentono l’apprendimento ulteriore» (E.D. Hirsch Jr., Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, trad. e cura di P. Di Remigio e F. Di Biase Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2024, p. 228).

Il naturalismo consiste nella convinzione «che la natura umana fosse innatamente buona, e dovesse dunque essere incoraggiata a seguire il suo corso naturale, non contaminata dalle imposizioni artificiali del pregiudizio e della convenzione sociale» (87).

Il formalismo è frutto di una didattica di forte impronta scientista ma con nessun fondamento scientifico, neppure nella psicologia. Il naturalismo educativo è la conseguenza del Romanticismo europeo che con Pestalozzi, Herbart, Froebel ha permeato di sé la pedagogia e la pratica educativa negli Stati Uniti d’America almeno a partire dal 1918. Dietro questa forma astratta che si inventa un bambino che non esiste «c'è la fede quasi religiosa che i pensatori romantici ripongono in qualunque cosa sia naturale. L’Émile di Rousseau aveva collegato tali idee ottimistiche, quasi religiose, alle teorie dell’educazione» (Ibidem). La pedagogia roussoviana si contrappone nettamente a quella platonica, per la quale invece «la radice del male sarebbe un’educazione che permettesse a istinti ed emozioni di dominare la ragione» (86).

La tesi del libro è che «non possiamo permetterci di accettare ancora la falsa credenza che l'istruzione adeguata sia naturale e indolore, e una funzione soprattutto del talento individuale anziché del lavoro sodo. […] In breve, dobbiamo cessare di seguire le idee romantiche che gli odierni riformatori, riecheggiando i riformatori degli anni Venti, Trenta e Quaranta e di tutti i decenni intermedi, hanno declamato in coro. Queste idee non sono assolutamente riforme. Sono le idee direttive a lungo dominanti nelle nostre scuole fallite» (228-229).

Il pedagogista di formazione romantica che ha permeato con le proprie idee la pratica scolastica statunitense non è John Dewey, come spesso si pensa, ma un suo allievo che ne capovolse in parte le tesi, William Heard Kilpatrick, il quale nel 1918 (appunto) riassunse le proprie tesi in un libro dal titolo Il metodo dei progetti. Il dinamismo, il potere accademico, la capacità retorica di Kilpatrick contribuirono a creare una vera e propria «ortodossia intellettuale» (74) che ha dominato la pedagogia statunitense sin dagli anni Venti del Novecento e quella europea dagli anni Sessanta dello stesso secolo.

Il fondamento di tale pedagogia, anche come frutto del formalismo e del naturalismo, è un aggressivo anti-intellettualismo, che nega la necessità dell’equilibrio tra elementi emotivi ed elementi razionali nel bambino; che rifiuta la conoscenza articolata, oggettiva e fattuale, a favore invece di formule vaghe e astratte che significando tutto non significano nulla. Questa miscela si manifesta nel vero e proprio odio e nel «disprezzo profondo della conoscenza oggettiva che pervadono il pensiero dei pedagogisti americani» (68) e nel rifiuto radicale della «curiosità disinteressata diretta ai contenuti delle lezioni e dei libri», i quali «furono associati con una tradizione corrotta e con l’Europa peccatrice» (117-118).

Dalla fine del XX secolo «alla vecchia antipatia per la conoscenza libresca, presente da decenni nel mondo della scuola, si è data ora un’apparenza di novità e perfino di avanguardia tirando fuori le promesse dell’elettronica» (70).

Direi che si tratta di una descrizione molto accurata dell’onda lunga che, proveniente dagli USA, ha investito le scuole europee contemporanee, le quali tendono sempre più a imitare gli elementi peggiori di una tradizione didattica profondamente aliena, che si implementa nella tendenza, tra le altre, a non indicare gli specifici contenuti da insegnare, anche per evitare di escludere qualche luogo, città, etnia, opera letteraria. Ciò che rimane è naturalmente un vuoto pneumatico, il vuoto dell’ignoranza.

Manifestazioni empiriche di tale colonizzazione della formazione in Europa e in Italia sono alcune pratiche diventate ormai istituzionali. Ne indico tre.

Mediante i cosiddetti Corsi zero le università sperano di colmare i grandi vuoti di conoscenza con i quali gli studenti medi arrivano agli studi universitari. A questo proposito Hirsch osserva, con molto buon senso, che «non è chiaro quanto a lungo le nostre università migliori possano continuare a essere eccellenti se gli studenti che vi entrano e che in seguito vogliono insegnarvi sono impreparati. […] Tutte le nostre università di più difficile accesso devono ora inserire nella loro offerta didattica centri correttivi per la scrittura e per la matematica e in alcuni casi per la lettura» (73) (ricordo che tali affermazioni risalgono al 1996).

Un secondo elemento sono i corsi di abilitazione che anche in Italia i laureati frequentano dietro pagamento di consistenti somme che vanno dai 1500 ai 2500 € (più 100 € per presentare domanda e 150 € per gli esami finali); corsi il cui significato ideologico e non educativo Hirsch riassume con sintetica chiarezza: «I milioni di insegnanti che passano attraverso questo processo di abilitazione sono prigionieri costretti all’indottrinamento» (77).

Un’ulteriore e veramente iniqua espressione del progressismo pedagogico romantico è la cosiddetta «rinormalizzazione» dei punteggi e dei voti sulla base dei gruppi razziali di origine, con l’obiettivo di fare apparire in questo modo tutti bravi allo stesso livello. Anche in questo caso Hirsch osserva che «ricevere un punteggio alto in una prova non è il biglietto dell’uguaglianza sociale per alunni le cui effettive competenze scolastiche siano basse, a prescindere dai punteggi dei voti attribuiti alle loro prestazioni» (215).

Si tratta di una truffa ideologica che colpisce sia il singolo studente, il quale viene ingannato sugli apprendimenti effettivamente acquisiti, sia l’intero corpo sociale, il quale viene ingannato sulle competenze ottenute dai suoi membri.

Negli Stati Uniti tutti questi elementi sono rafforzati e aggravati dal localismo che rifiuta un curricolo comune, un minimo di conoscenze di base che devono acquisire tutti gli studenti al di là dello Stato o della Contea di appartenenza, e dall’eccezionalismo che rifiuta l’apporto di altre culture e tradizioni. L’eccezionalismo è una caratteristica della società e della politica nordamericane della quale si parla poco e che invece è fondamentale per comprendere quella cultura. L’eccezionalismo è il frutto più radicale, escludente e aggressivo del millenarismo calvinista dal quale gli USA sono nati e che così viene riassunto da Hirsch: «Libertà dal passato corrotto, celebrazione del paesaggio puro, vasto, e immunità dalle tradizioni e dai libri - tutto questo fu una versione molto americana, molto eccezionalista del Romanticismo. Noi della terra vergine eravamo più liberi, più indipendenti, più innocenti e più vigorosamente diversi dell’Europa, peccatrice. Qui ogni cosa era più grande - le virtù e i vizi, le energie e gli ostacoli. Eravamo destinati a guidare e a redimere le altre nazioni, non viceversa. Eravamo posti sulla terra per insegnare loro, non per averle maestre» (106).

Un’affermazione assai chiara e che conferma le tesi di un filosofo del diritto molto lontano dalla formazione e dall’ambito di studio di Hirsch ma la cui convergenza è già una prova. Ne Il Nomos della terra Schmitt sostiene infatti che la dottrina Monroe crea il concetto e la realtà di emisfero occidentale contrapposto allo spazio europeo, dove la contrapposizione non è soltanto tra il nuovo e il vecchio, tra il mare e la terra ma tra sfere morali e politiche del tutto diverse. La potenza che ha creato l’emisfero occidentale, gli USA appunto, identifica in se stessa una terra d’elezione prima di tutto morale, si attribuisce un primato etico e umanitario, pur essendo nata dallo sterminio e dal genocidio dei popoli nativi dell’America. Si tratta dunque di una civiltà eletta, di una nuova Gerusalemme, il cui manifest destiny consiste nel diffondere libertà e democrazia in tutto il mondo, all’inizio contro le monarchie ‘reazionarie’ dell’Europa e poi contro qualunque popolo e nazione che rifiuti di abbracciare i suoi principi. L’eccezionalismo pedagogico del quale discute Hirsch è parte e manifestazione di tale più ampio eccezionalismo storico e politico.

E però tali pretese hanno avuto e continuano ad avere esiti esattamente opposti a quelli proclamati dai loro sostenitori. È infatti «un’amara ironia che la retorica ugualitaria dell’ortodossia pedagogica americana abbia promosso la disuguaglianza» (15).

Punto di riferimento costante di queste analisi critiche è uno dei maggiori pensatori italiani ed europei del Novecento, Antonio Gramsci, il quale comprese subito e benissimo che «le nuove idee educative avrebbero portato a una maggiore ingiustizia sociale», come recita la dedica a lui del libro da parte di Hirsch (5), argomentata in una delle epigrafi di p. 9, tratta dai Quaderni dal carcere, Quaderno XXIX, 1932, II. Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 132, 138-139, 143: «Si è ancora nella fase romantica della scuola attiva, in cui gli elementi della lotta contro la scuola meccanica e gesuitica si sono dilatati morbosamente per ragioni di contrasto e di polemica. […] Prima gli allievi, per lo meno, si formavano un certo ‘bagaglio’ o ‘corredo’ (secondo i gusti) di nozioni concrete. […] Coi nuovi programmi […] non vi sarà ‘bagaglio’ del tutto da ordinare. […] L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi».

Gramsci comprese che ogni pedagogia anti-intellettualistica, la quale nega il valore dei libri, dell’apprendimento rigoroso, del lavoro ‘sodo’, della selezione per meriti reali, ha degli inevitabili effetti di ingiustizia perché conferma tutte le differenze socioeconomiche di partenza con le quali i bambini entrano a scuola. Riteneva dunque che le teorie romantiche e naturalistiche dell’istruzione costituiscano delle illusioni dagli effetti sociali iniqui, e che invece «il progressismo politico richiedesse il conservatorismo pedagogico. […] Non si sarebbero dovuti incoraggiare i bambini, specialmente quelli poveri, a fiorire ‘naturalmente’, perché ciò li avrebbe mantenuti ignoranti e li avrebbe resi schiavi delle emozioni. Essi avrebbero dovuto capire il valore dello studio serio, acquisire la conoscenza che porta alla comprensione, e padroneggiare la cultura tradizionale per disporre della sua retorica, come Gramsci stesso aveva saputo fare. In questo dibattito, la storia ha mostrato che Gramsci è stato un teorico e un profeta migliore di Freire» (18).

L’autore di questo libro si proclama un patriota, convinto che gli USA siano «il più grande Paese al mondo» (13), si proclama un liberale, convinto che «il solo modo concreto per raggiungere lo scopo liberale di una maggiore giustizia sociale è quello di perseguire politiche pedagogiche conservatrici» (17) e questo perché «tra progressismo pedagogico e progressismo sociale c'è un rapporto inverso. La pedagogia progressista è un mezzo sicuro per conservare lo status quo sociale, mentre le migliori pratiche del conservatorismo pedagogico sono gli unici mezzi con cui i bambini delle famiglie svantaggiate possono assicurarsi la conoscenza e le competenze che li condurranno a migliorare le loro condizioni» (19). Si tratta di verità evidenti, che soltanto dei pregiudizi russoviani, romantici e naturalistici possono offuscare.

Ultima annotazione: ancor più e assai più che libri e saggi di natura direttamente politica, questo libro mostra ed elenca in modo plastico, empirico e convincente le ragioni che giustificano la qualifica di barbarica che va attribuita alla società statunitense. Una società fatta di un miscuglio confuso e pericoloso di illusioni romantiche e aggressività religiosa, di suprematismo storico e moralismo fanatico, di principi proclamati e però continuamente disattesi e negati nell’esistenza quotidiana. Una società plasmata da una pedagogia che è insieme una delle cause e una delle conseguenze di tale inquietante miscuglio.