NÉ PANE NÉ ROSE?
Che fine ha fatto il miraggio di una società senza lavoro e senza classi? Più che tramontato sembra cancellato dalla memoria collettiva, riprogrammata sulla retorica del lavoro "a qualunque costo". Al danno del sogno perduto si aggiunge così la beffa di un incubo realizzato, dato che il lavoro è diventato sempre più scarso e la precarietà mostra la sua trasversalità sociale. Basta allungare lo sguardo verso l'orizzonte che anticipa le tendenze di casa nostra per convincersi che non si tratta di affermazioni fuori luogo.
In un recente studio statunitense, uscito anche in Italia nel 2021 per il Mulino con il titolo Morti per disperazione e il futuro del capitalismo, Anne Case e Angus Deaton disegnano una mappa dell'attuale crisi economica a partire dal numero crescente di morti fra i bianchi americani, non ispanici e di mezza età, per suicidio o per conseguenze di condotte autodistruttive. Nella pluralità dei fattori a cui ricondurre tale fenomeno, la perdita del lavoro ha un'incidenza significativa, in particolare fra i soggetti con un livello di istruzione inferiore alla laurea, sebbene la conseguente mancanza di reddito non sia la causa scatenante. Questa apparente contraddizione è un nodo sul quale merita riflettere dal momento che siamo ormai abituati a parlare di lavoro - e soprattutto a pensarlo - esclusivamente in termini economico-occupazionali, in continuità con la logica del capitale che lo riduce a fattore produttivo, astratto e alienabile. Si tratta di una concezione nata con l'economia politica che ha elaborato l'idea del lavoro come merce, estromettendo gli altri significati non ricadenti nella cosmogonia dell'homo oeconomicus.
Ed è proprio alla parte negletta del lavoro che i due studiosi americani fanno riferimento per spiegare che cosa raccontano le morti per disperazione: la dissoluzione dei legami familiari, l'emarginazione sociale, la perdita della dignità e del rispetto di sé che colpiscono in modo statisticamente rilevante la classe operaia d'oltreoceano. Ma questa tendenza si può leggere più in generale come l'esito estremo del riduzionismo capitalista che ha trasformato il lavoro in forza-lavoro segnando, fin dalla prima rivoluzione industriale, la progressiva destituzione del soggetto politico e la sua dissoluzione nell'individualismo negli ultimi quarant’anni di economia neoliberista. Quali forme ha assunto e assume tuttora l'espoliazione del soggetto dal proprio lavoro? A tale proposito spunti interessanti sono disseminati nel volume Perché lavoro? Narrative e diritti per lavoratrici e lavoratori del XXI secolo che raccoglie i contributi di Alain Supiot, Richard Sennett e Axel Honnett in una prospettiva multidisciplinare.
Il caposaldo che tutto tiene individua nella proprietà privata il principio fondativo della nascente economia capitalistica, teorizzato da John Locke in sintonia con la "convinzione" che il valore di ogni cosa sia misurabile con la quantità di lavoro che essa contiene. Equiparato a valore di scambio, il lavoro viene considerato proprietà privata, tanto per chi lo offre quanto per chi è in grado di acquistarlo, indipendentemente - per così dire - dal valore d'uso cui è destinato. Un tale presupposto, estraneo alla mentalità dell'homo faber che - fa notare Supiot - realizzava con maestria ciò che prima aveva progettato nel pensiero, è tutt'oggi alla base del diritto del lavoro e delle lotte sindacali, raramente interessate al controllo dei processi produttivi, alle finalità e alla ragion d'essere per cui si richiede e si dà forza-lavoro.
Questa configurazione non risparmia neppure l'attività cognitiva, così come non fa distinzione tra le mansioni e i gradi di responsabilità all'interno delle aziende che con terminologia tristemente eloquente considerano i dipendenti "capitale umano".
A trasformare il lavoro in attività impersonale contribuisce anche la tecnologia digitale per l'effetto distorsivo sulla percezione individuale del tempo. Il "lavoro per immagini", per usare l'espressione di Sennett, schiacciato sull'orizzonte temporale dell'immediatezza, altro non è che un'occupazione scadente, priva di abilità e di contenuti di conoscenza e, in quanto ipotecata da un forte turn over, inadatta a costruire legami duraturi. Siamo qui molto oltre il processo di alienazione e ancor più lontani dalla possibilità di acquisire, come il servo hegeliano, la coscienza di sé attraverso il lavoro che si trasforma in spinta alla lotta di classe. Nella foga estrattiva, il capitale ha prosciugato anche questa possibilità che ne L'uomo flessibile Sennett mette acutamente in relazione con l'impoverimento esistenziale.
Ciò che dal punto di vista tecnologico è per il capitale una combinazione formidabile di semplificazione, efficienza e produttività a basso costo, si traduce per il lavoratore in una serie di conseguenze ancora troppo sottovalutate come, ad esempio, l'impossibilità di integrare il lavoro nella propria vita come un percorso ordinato e sufficientemente prevedibile all'interno di organizzazioni stabili; come l'indebolimento della solidarietà fra i lavoratori e, più in generale, il disinteresse a partecipare alla vita pubblica.
È drammaticamente ovvio che la preoccupazione primaria di non perdere la fonte di sussistenza superi l'esigenza di "contare" nella società, di dare voce, insieme alle legittime richieste di condizioni materiali più eque, anche all'istanza di riconoscimento, contestando la società-mercato che non aggiusta le disuguaglianze ma le crea e le moltiplica. Il lavoro come principio ordinatore del caos, scuola della ragione e incubatore della vita democratica sono prerogative che nel confronto con la realtà di oggi sembrano colpevolmente ingenue ma nonostante le forme di oppressione che ogni epoca ha portato con sé, ciò che inquieta in questo nostro tempo è l'accondiscendenza trasversale ad un dispotismo mite capace di inibire, in nome di un concetto pervasivo e distorto di economia, il pur minimo accenno di dissenso, anche in quegli strati sociali che ne portano il peso.
In questi giorni abbiamo assistito alle proteste dei rider e allo sciopero dei dipendenti di Amazon. Umanamente auspichiamo che la protesta approdi ad un esito favorevole per questi lavoratori ma poco o niente fa supporre che sia in atto un risveglio delle coscienze. Qualcosa di diverso potrebbe accadere, invece, se a risvegliarsi fosse la più ampia coscienza collettiva che ha acconsentito a quelle occupazioni prive di spessore e di dignità di entrare nel quotidiano come la più normale e confortevole delle abitudini.