REALTÀ PARALLELE
La prima volta che lessi Candide avevo circa vent’anni e molta più leggerezza di quanta me ne ritrovi in tasca oggi. Fu una lettura che, nella sua irriverenza, trovai divertente e godibile, seppur così distante dall’idea di futuro che vedevo prender forma nell’Università di allora, appena uscita dall’esperienza delle lotte politiche degli anni Settanta, quando si andava a lezione con le scritte di Autonomia operaia che ancora colavano sui muri della facoltà ed era vivissimo il ricordo dei docenti gambizzati nei corridoi dell’Ateneo e per le strade del centro. Il riflusso degli anni Ottanta era appena iniziato e la mia generazione immaginava un mondo pieno di possibilità, tutto da costruire. Che fosse un’illusione, ancora non lo sapevamo: viviamo nel migliore dei mondi possibili, più che il mantra leibniziano di Candide, sembrava una realtà; ce lo dicevano convintamente i nonni, testimoni o protagonisti della guerra e della Resistenza; ce lo ripetevano i padri e le madri, che ricordavano la povertà, la fame e le bombe, pur filtrati dall’apertura sul futuro che aveva preso forma col miracolo economico; ne eravamo convinti noi, che abbracciavamo con fervore i movimenti che si proponevano di cambiare il mondo e ci sapevamo eredi di una libertà costruita sul sangue e sui sacrifici delle nostre famiglie. Libertà non era un concetto astratto, ma un baluardo immateriale da difendere e tener vivo. Per sempre. Anche a furia di domande impertinenti.
Mi ha sorpresa non poco ritrovarmi in testa Candide mentre riflettevo su una questione che mi tormenta da tempo, ovvero come sia possibile che, nel mondo schizofrenico emerso dalla pandemia, ci siano visioni parallele (per definizione, rigorosamente separate) di una stessa realtà. Gli elementi costitutivi di entrambe le prospettive sono grossomodo corrispondenti: ordinanze governative, contesto economico e socio-culturale, pur declinati nelle molteplici esperienze personali sul lavoro, nello sport e nel tempo libero. È vero che molti particolari divergono perché le esperienze sono individualmente articolate o perché le vicende vengono diversamente riportate da differenti fonti d’informazione; se volessimo cercare un piccolo esempio dimostrativo del secondo caso (meno intuitivo da comprendere), potremmo nominare le innumerevoli manifestazioni – Innumerevoli? Figuriamoci! - con decine di migliaia di partecipanti - No, poche decine! Massimo qualche centinaio! – in molte città italiane ed estere – Ma va là! Non lo dice nessun Tg! - che assurgono a livello della cronaca mainstream solo quando compaiono i “cattivi” che attaccano i “buoni”, meglio se con un tocco di giallo, ad esempio un ambiguo studio del moto ondulatorio sui mezzi della polizia, completo di certificazione ministeriale.
Quel che ho appena richiamato dalla recente cronaca era accessibile – per vie più o meno mainstream – a tutti. È però evidente che la lettura e l’interpretazione dei fatti menzionati passano da molti fattori non secondari: la fonte da cui siamo stati informati e la fiducia che riponiamo in essa, il pregiudizio che orienta ideologicamente il nostro sguardo, l’attenzione nel cogliere la vicenda, l’interesse a seguirne gli sviluppi, la capacità di comprensione (anche linguistica) delle parti in gioco, la voglia di approfondire ciò che è poco chiaro o poco logico, vincendo la pigrizia e l’incostanza che conducono alla proverbiale “scarsa memoria” (storica e non solo) degli italiani.
Ed ecco che le due realtà parallele hanno preso forma.
Questo evidente stato di cose non riguarda solo alcune fasce di cittadini individuabili tramite un qualche criterio sociologico (scolarizzazione, reddito, età, distribuzione geografica, tipo di impiego o altro), ma si spalma trasversalmente su tutta la popolazione e lascia sconcertato l’osservatore. Quando, poi, tra questa generica popolazione, intravvediamo persone di cui conosciamo l’ampia cultura e la capacità di riflessione critica, tra gli sconcertati ritroviamo, volenti o nolenti, anche noi stessi, qualsiasi sia la “fazione” cui apparteniamo.
Se dovessimo riassumere tale sconcerto in una domanda, essa suonerebbe pressappoco così: “Ma tutta questa gente è uscita di senno?”.
A darci l’indizio che la domanda clou sia proprio questa è il correlato incrociato di accuse perentorie:
“Non vi fidate della vera Informazione e della Scienza!”
“No, siete voi che credete nella Scienza, manco fosse una fede! E non verificate le notizie del Tiggì e dei giornali”.
“Libera cura in libero stato!”
“Zyclon B ai no-vax!” (citazione letterale)
“Siamo in una dittatura sanitaria!”.
“Ma che dittatura! Voi No-Tutto siete terrapiattisti, egoisti e fifoni!”.
Chi ha ragione? Chi ha torto? Sono tutti pazzi?
È a questo punto della riflessione che Candide è rotolato tra i miei pensieri suggerendomi l’ipotesi che un eventuale dialogo chiarificatore tra le parti sia inquinato a monte delle realtà parallele, ovvero che il problema si annidi tra i presupposti che consentono o meno di procedere ad una lettura critica del presente. Per verificare se la mia idea ha qualche fondamento, proverò ad esaminare alcune obiezioni di principio mosse a chi guarda con cautela la narrativa corrente.
La prima contestazione, forse la più scontata, è la seguente:
“Come si può obiettare a tesi (medico-scientifiche-giuridiche-geopolitiche…) che non si possono né capire, né valutare, visto che non ne siamo esperti?”.
L’esperto, il competente, può essere scelto tra varie possibili declinazioni (medico, virologo, epidemiologo, farmacologo, ma anche, mutatis mutandis, giurista, costituzionalista, esperto di comunicazione, politologo, antropologo…), non è questo l’importante. Ciò che conta è, invece, rilevare che il passaggio fa emergere un dogma, per definizione indiscusso: il dogma della competenza, figlio della parcellizzazione dei saperi. Si assume, cioè, che solo i competenti possano esprimere un’opinione sensata su temi relativi all’ambito specialistico che in quel momento è al centro del dibattito.
Per riflettere sulla questione, facciamo un piccolo viaggio nel tempo.
Socrate è il filosofo che ha trasformato la filosofia antica col famoso paradosso “so di non sapere”. Questa postura filosofica esalta il valore di una conoscenza in fieri, sempre da completare, e depotenzia la presunzione di chi si pensa sapiente e, in quanto tale, detentore di verità. Nello stesso tempo, l’inciso spinge il filosofo alla libertà di interrogare le cose senza reticenze, un atteggiamento simile a quello del bimbo della fiaba di Andersen che, vedendo l’imperatore nudo, è l’unico a non aver riguardo nel dirlo.
Un dialogo tra Socrate - che non recede dal chiedere chiarimenti, costi quel che costi – e un nostro contemporaneo – convinto che debba parlare solo chi è esperto - potrebbe svolgersi pressappoco in questo modo:
“So di non sapere, ma…”
“Quale ma? Se non sai, taci!”.
“Ma… una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta!”.
“Sta’ zitto, Socrate! Qui, la verità viene somministrata dai tele-sapienti e realizzata dal sommo governo degli aristoi! Non bisogna tentennare! Non azzardarti a traviare la nostra gente con le tue pignolerie!”.
Il piccolo giocoso apocrifo, oltre a far riflettere sull’assunto che a parlare abbiano titolo sempre e solo gli esperti, cela un dramma: da qualche tempo, sembra venuto meno il thauma (stupore, meraviglia, sconcerto, indignazione), ovvero quell’altra spinta, oltre alla continua perfettibilità del sapere, che muove alla ricerca del vero.
Nessuno spazio alla meraviglia, oggidì la strada è già tracciata: si ritiene che l’esperto sappia con precisione cosa va fatto. Questa certezza innesca una dinamica (solo per lui) win-win: qualora l’esperto sbagliasse, la sua salvaguardia starà indubitabilmente nella complessità della problematica su cui egli ha agito (o, di volta in volta, nell’incompletezza dei dati, nell’organizzazione della logistica, nell’orizzonte temporale, ecc.). Ai non esperti risulterà pressoché impossibile stabilire se si trattasse, invece, di incompetenza.
Di qui l’auto-indotta soppressione del pensiero critico. Del resto, cosa potrebbe obiettare a chi sa colui che ritiene di essere inabile anche solo a guardare nel groviglio?
Come potrà individuare uno spazio in cui sia legittimo esercitare autonomia cognitiva o riflessiva chi ritiene che sia imprescindibile la guida degli esperti per non perdersi nella complessità?
Una seconda obiezione molto diffusa di questi tempi suona così: “Cos’altro si sarebbe potuto fare, in queste condizioni?”.
Va segnalato che la locuzione “queste condizioni” nasconde un problema: è stata tagliata alla radice la domanda “Chi ha stabilito che le condizioni sono queste e non altre?” o, in altri termini, “Chi ha elaborato questo contesto già chiuso?”. Domande tutt’altro che irrilevanti, date le premesse di cui sopra.
Ora, come potrebbe avvertire questa “chiusura del contesto” un Tizio che facesse solo domande funzionali al sistema, quelle che sembrano interrogare mentre, in realtà, non fanno altro che spianare la strada alla tesi che dovrebbe, invece, essere verificata?
Come potrebbe immaginare un contesto alternativo un Tizio che si affida totalmente agli “esperti” senza curarsi di eventuali elementi perturbatori della tanto necessaria expertise, senza la quale non si potrebbe uscire dal caos (conflitti d’interesse, contraddizioni, errori…)?
Corollario di questa seconda obiezione è la fatidica replica: “Ma tu, cos’avresti fatto al loro posto?”. Tradotto in forma esplicita e adattata al nostro contesto, il corollario riversa su Socrate la sfida di trovare – da non esperto – la soluzione al rompicapo che gli esperti non hanno ben risolto.
Ciò che si perde di vista in questa furia difensiva è che la soluzione migliore (anche in ambito scientifico) emerge quasi sempre alla confluenza di prospettive differenti che possono essere dispiegate in modo costruttivo.
Potrà la scienza sopravvivere ad una prospettiva unica? Certamente, non potrà farlo la filosofia, che a furia di domande insegue il vero in tutte le sue forme: se non c’è altra verità che quella dispensata dagli esperti, la ricerca della filosofia diventa inutile, e non nel consueto significato di libera, non prona al tornaconto di chicchessia, bensì nel significato proprio di “superflua”.
Si realizza il vecchio detto dei detrattori: “La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto resta tale e quale”.
Resta aperta e sanguinante una domanda: com’è possibile che venga scambiata per hybris (tracotanza) da tacitare l’onesta ricerca di chi, pur sapendo di non sapere, si ostina a chiedere?
Negare il diritto di chiedere un confronto su un tema controverso e fissare lo sguardo, con lucida e imperturbabile caparbietà, sull’impossibilità di fare qualcosa di meglio a queste condizioni non sono, forse, scelte analoghe a quella di Candide, che accetta passivamente tutto quanto gli accade perché è convinto di trovarsi da sempre nel migliore dei mondi possibili (e, dunque, non può contemplare altre possibilità)?
L’antieroe settecentesco programmaticamente spegne qualsiasi domanda in teorie (leibniziane) preventivamente assunte come vere, disinnescando col suo cieco candore ogni possibile dubbio. Voltaire ne fa un’irriverente critica a tutte le ideologie che distorcono la visione del mondo.
Sarà per suggerirmi questa possibile analogia che Candide è venuto a tormentare le mie giornate estive?