Aldous

Totalitarismo compassionevole

FUNZIONARE È MEGLIO CHE ESISTERE?

La vicenda pandemica è destinata a comparire ancora nelle riflessioni sulla contemporaneità per aver segnato una misura con cui saggiare il tasso di democrazia della vita pubblica e, insieme, un modo di scandire la vita personale tra un prima, un durante e un dopo-Covid. Altri fatti, gravi almeno quanto la pandemia se non di più, non hanno lasciato la stessa impronta nel linguaggio corrente. Non è accaduto per eventi spartiacque come l'attentato alle Torri Gemelle o il dissesto finanziario di Wall Street, nonostante le profonde ripercussioni che hanno raggiunto anche il Vecchio Continente; e nemmeno è successo per le crisi a lento rilascio, legate al fenomeno migratorio e ai mutamenti climatici; ancor meno, ovviamente, per i recentissimi avvenimenti bellici, tuttora in atto, con il portato incerto dell'approvvigionamento energetico, dell'inflazione e per la minaccia nucleare ogni giorno evocata e che - fatto sorprendente - non sembra suscitare particolare apprensione. È possibile che la sensazione di non poter incidere con il comportamento individuale sul decorso di tali accadimenti sia una spiegazione plausibile. Di contro, l'adesione convinta alla campagna vaccinale e il sistema premiante ad essa collegato ha ridato smalto all'illusione di contribuire in prima persona alla costruzione del bene comune. Questa almeno è stata la narrazione che ha diviso i bravi cittadini dagli irresponsabili ma si è trattato di un effetto superficiale costruito sull'accostamento immediato tra la causa (il vaccino) e l'effetto (l'immunità propria e altrui). 

Eppure, c'è un comune denominatore che tiene insieme tutti gli avvenimenti critici che hanno caratterizzato fin qui il Terzo Millennio: il passaggio senza soluzione di continuità da un'emergenza all'altra con la conseguenza puntuale di scaricarne il peso sui cittadini comuni. Nella diversità delle situazioni, lo schema si ripete puntualmente: privatizzare i vantaggi (i profitti) e socializzare i disagi (le perdite) e del resto, in ognuna delle emergenze sopra ricordate, c'è sempre una minoranza che ne ha tratto - e ne trae - profitti finanziari sbalorditivi a spese di una maggioranza che si impoverisce, e non solo sul piano materiale.

Questa dinamica che è una costante del sistema di produzione capitalistico, con l'emergenza sanitaria ha compiuto un'ulteriore messa a punto nel momento in cui le conseguenze di medio-lungo periodo della politica pandemica hanno iniziato a penetrate nelle fibre più sottili della vita individuale. Organi di informazione specialistica, rilanciati dai media generalisti, parlano esplicitamente di pandemia emozionale, riferita all'insorgere di disturbi d'ansia e di depressione in una moltitudine di persone, particolarmente nelle fasce giovanili.

Non c'è da sorprendersi di una tale conseguenza. Perfino nella costituzione della OMS, cioè dal 1948, troviamo la definizione di salute come uno stato di totale benessere - fisico, mentale e sociale - e non semplicemente come assenza di malattie o infermità. Dopo le cautele della prim'ora, era dunque normale anche per i sacerdoti mediatici della scienza attendersi, e magari adoperarsi per prevenirle, le conseguenze negative sulla salute mentale delle restrizioni in tempo di pandemia; di contro, nessuna evidenza scientifica ne poteva confermare l'opportunità, semplicemente perché non c'era. Oggi lo sappiamo anche da fonti dirette e possiamo dire che, colpevolmente, un rischio reale per la salute mentale è stato ignorato in nome di una menzogna - la non contagiosità dei vaccinati - per introdurre misure politiche repressive, ostacolando un'onesta informazione e un vero dibattito pubblico. Ma si sa, ogni processo produttivo, nell'estrarre valore per alcuni, produce scarti e pazienza se questa volta il danno è toccato all'anima, ceduta allo sterco del diavolo e alle sue agenzie di riferimento.

La lettura politica di tale circostanza nulla deve togliere al rispetto per coloro che vivono la sofferenza sulla propria pelle. Tuttavia, non si può sorvolare sul fatto che la soluzione suggerita da chi il problema lo ha creato insiste sulla leva di sempre: la risposta individualistica. Di fronte all'incremento dei disturbi della psiche non viene messo in dubbio il modello di sviluppo vigente - quello da cui, dopo la pandemia, dovevamo uscire migliori, più solidali e consapevoli - ma con un gesto peloso di cura si incoraggia l'individuo a occuparsi in proprio delle sue "disfunzionalità", in cambio di un adeguato contributo di stato. Si sottintende in tal modo - e si convince - che il sofferente è prima di tutto un "socialmente fragile", un disadattato e forse anche un tantino sleale.

Senza bisogno di spingersi nell'impegnativo compito di capire un po' di più di se stessi e del mondo, l'obiettivo primario è riportare il substrato flessibile su cui far crescere competenze performanti che è diventata l'anima, a funzionare di nuovo. La parola chiave è resilienza, un termine entrato nella psicologia ben prima che nel PNRR, e che suggerisce agli umani di assumere la caratteristica che hanno certi materiali (!) di resistere agli urti per adattamento, modellandosi cedevolmente. Cos'altro è l'ansia se non una mancata risposta di adattamento di fronte a situazioni di stress? Abbiamo così la versione economicista del "mi piego ma non mi spezzo" al cospetto dello spirito macchinico della realtà nella quale possiamo imparare a funzionare meglio ma senza dissentire. 

Misurarsi con la propria condizione umana non equivale a soccombere agli eventi ma neppure al paternalismo. Caso mai, come retaggio di quel pensiero illuminista di cui siamo tragicamente figli, esorta ad uscire  dallo stato di minorità, a mantenere la distanza critica e la lucidità di pensiero. Niente di tutto ciò rende felici - sia chiaro - ma è essenziale per tenerci al riparo da un'esistenza adattata in cui  "tutte quelle linee di confine che ci sembrano naturali (quelle tra spontaneità e coercizione, tra attività e passività, tra aver bisogno ed essere costretti, tra dentro e fuori, tra individuo e individuo) ... sono totalmente cancellate". (Günther Anders, L'uomo è antiquato, vol. II, p. 133). 

Ogni cultura fornisce un suo modo di soffrire, sosteneva Ivan Illich decenni orsono, quando aveva già compreso che il nostro tempo, espropriando le persone d'ogni capacità di prendere consapevolezza del limite umano, stava trasformando la sofferenza, la malattia e la morte in inconvenienti aggirabili con lo scientismo della ragion tecnica e gli officianti atti di fede.