UNIVERSALISMO
L’Europa moderna si è formata anche e in gran parte sugli esiti della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), che sancirono il definitivo tramonto dell’universalismo imperiale a favore della sovranità delle nazioni che da quella guerra uscirono. Una sovranità politica, economica, religiosa. E tuttavia dopo più di un secolo da quegli esiti si diffuse e divenne sempre più vincente un modello che tornava alla dimensione universalista, il modello liberale e liberista del capitale che per definizione non ha patria né tollera confini.
Karl Marx riconobbe pienamente la dimensione (anche) in questo senso rivoluzionaria del capitalismo, da lui giudicato una fase necessaria per l’avvento dell’ultimo universalismo, quello comunista che avrebbe posto fine a ogni conflitto. Un’idea escatologico/messianica, assai più che politica. L’universalismo comunista ha avuto infatti breve durata e di fatto non è neppure mai nato. La «rivoluzione in un solo Paese» ha cancellato il progetto trotzkista della «rivoluzione mondiale permanente».
Dopo la fine del comunismo sovietico l’universalismo del capitale non sembrava avere più ostacoli, tanto che qualche analista parlò persino di «fine della storia» come fine dei conflitti. Questo è in realtà il sogno globalista statunitense, che però sta incontrando molti e decisivi ostacoli per l’imporsi di un terzo modello, quello degli Stati-civiltà, strutture che non si limitano allo Stato nazione e che però non solo non aspirano all’universalismo ma esplicitamente lo rifiutano. A incarnare questo terzo modello sono potenze regionali come la Cina, la Russia, l’India, l’Iran.
Tali potenze rifiutano il globalismo e il suo paradossale etnocentrismo. Quello per il quale il liberalismo occidentale ha la pretesa di costituire non soltanto l’unica forma legittima di costituzione politica presente sul pianeta Terra (tutte le altre forme sarebbero delle ‘dittature’) ma di rappresentare anche e soprattutto l’incarnazione dei valori morali più alti in assoluto, indiscutibili, da imporre in tutti i modi (guerre comprese) a chi non li condivide e da zittire quanti in Occidente li criticano.
Questi valori/atteggiamenti sono ad esempio: il disprezzo per la difesa di ogni tradizione e identità culturale circoscritte rispetto alla globalizzazione; l’eguaglianza puramente formale che non protegge affatto dalle discriminazioni reali; la convinzione metafisica che il biologico (il sesso) non conti nulla rispetto al volontarismo (il genere); la fantasiosa convinzione che l’Occidente sia dominato dal patriarcato; l’idolatria del ‘mercato’ come regolatore della vita economica. Ritenere assoluti questi ‘valori’ storici è una forma molto pesante di etnocentrismo, fondato sulla convinzione di costituire la civiltà rispetto al male altrui. Di ‘civiltà’ si deve invece parlare sempre al plurale e mai al singolare. Le civiltà, le pluralità, costituiscono una garanzia di autentica eguaglianza e di accoglimento dell’altro, delle sue differenze, anche di quelle che a noi non piacciono.
La saggezza politica non consiste dunque in un impossibile universalismo, come alcune correnti cristiane e illuministiche hanno preteso che fosse, ma nella consapevolezza che ogni civiltà e cultura è limitata a un certo spaziotempo senza pretendere di essere la migliore in assoluto o addirittura l’eletta, come le culture della hybris quali l’ebraismo e il capitalismo imperialistico si sono vantate e si vantano di essere.
Tra le conseguenze più dannose dell’etnocentrismo etico dell’Occidente vi è ciò che alcuni analisti politici definiscono oicofobia, vale a dire l’avversione alle proprie radici, alla propria cultura, alla propria identità. Emblematica di tale patologia è la cancel culture, che racchiude e condanna millenni di cultura europea sotto le categorie di ‘razzismo, omofobia, patriarcato’.
Conseguenza e insieme strumento dell’oicofobia è ad esempio la convinzione che ogni confine vada distrutto e che i fenomeni migratori siano sempre e solo positivi. Si tratta di una tesi che ignora completamente le strutture antropologiche dell’identità e della differenza, quelle per le quali può davvero accogliere le differenze soltanto chi possiede un’identità e non chi nega le differenze e con esse l’esistenza stessa dell’identità di un individuo, una comunità, un popolo, un continente. L’esito di una apertura indiscriminata a masse di migranti che giungono in Europa è un duplice impoverimento: l’impoverimento delle terre di provenienza, abbandonate dal ceto medio, che è l’unico ad avere le risorse economiche per intraprendere i viaggi verso l’Europa, e l’impoverimento delle terre di destinazione attraverso la diminuzione dei salari e la perdita del lavoro, della casa, della qualità dei servizi (sanità e istruzione soprattutto) da parte degli autoctoni.
La conseguenza più distruttiva del liberalismo/liberismo è naturalmente il moltiplicarsi delle guerre, funzionale sia alla produzione industriale, trainata dal settore delle armi, sia alla necessità di imporre il modello universalista agli Stati-civiltà che rifiutano o non si adeguano al modello liberal-capitalista. Una necessità che sta trasformando ormai da tempo il liberismo in una «economia di saccheggio e di racket» (Hervé Juvin, Diorama Letterario 376, novembre-dicembre 2023, p. 16), come dimostrano molti fatti, il più grave dei quali è il congelamento/furto dei beni dello Stato e dei cittadini russi conservati nelle banche e nelle aziende occidentali. Chi agisce in questo modo, è chiaro, può ottenere vantaggi a breve termine ma è destinato a perdere ogni credibilità e fiducia da parte degli investitori e degli Stati che non siano interamente colonizzati dagli Stati Uniti d’America e a essi sottomessi.
Un’espressione politico/etica dell’etnocentrismo liberale diventato una chiara forma di imperialismo è il doppio standard che ad esempio rende sicuro dell’impunità lo Stato di Israele quando non rispetta nessuna delle tante risoluzioni dell’ONU che gli imporrebbero di restituire i territori sottratti alla Palestina con la «guerra dei sei giorni» del 1967. Rifiuto che diventa una capillare colonizzazione dei territori dove i palestinesi si sono rifugiati, come la Cisgiordania, e ora diventa una pratica di pulizia etnica e di espulsione - anche esplicitamente enunciata e teorizzata - dalla Striscia di Gaza, dove è in corso un vero e proprio genocidio degli uomini, delle donne, dei bambini di Palestina.
Nonostante questo atteggiamento di impronta razzista, Israele non è stato mai escluso dall’ONU né ha dovuto subire le conseguenze di coalizioni formate per imporre i ‘diritti umani’. Fin dal 1947 - con la nakba, la deportazione dei palestinesi dalla loro terra - è in corso da parte delle potenze anglosassoni e di Israele un chiaro tentativo di ridare vita al Grande Israele biblico, con l’eliminazione della presenza arabo-islamica in Giudea e Samaria a favore dell’etnia israeliana quale unica legittima abitatrice della Terra Promessa. L’attacco organizzato da Hamas il 7 ottobre 2023 ha avuto come conseguenza anche l’esplicita rivendicazione da parte del governo israeliano di tutti i territori dove sia ancora presente l’elemento palestinese. Come si vede, l’universalismo liberale dell’Occidente non si fa scrupoli ad agire in base a principi etnocentrici e razziali quando essi diventano funzionali alla sua politica di potenza.
Conseguenza ulteriore dell’universalismo etnocentrico dell’Occidente è un sempre più esteso e capillare controllo delle opinioni critiche rispetto agli eventi (che si tratti di epidemia, di Ucraina, di Palestina), una sempre più chiara imposizione di slogan autoritari, un pericoloso tramonto della libertà di espressione.
In questo modo l’universalismo liberale si mostra in realtà per quello che è, una forma della volontà di potenza, un’espressione del rifiuto delle differenze e della molteplicità a favore di un’identità imperiale.