Aldous

Totalitarismo compassionevole

CHI È ASSENTE HA SEMPRE TORTO?

Sullo sfondo degli avvenimenti internazionali e delle emergenze globali, reali o presunte, l'ultimo rapporto Censis descriveva l'Italia come un paese intrappolato in uno stato di "galleggiamento" riguardo ai consueti indicatori socio-economici (PIL, consumi delle famiglie, occupazione, investimenti, ecc.). Fedele alla proverbiale attitudine a navigare, la popolazione italica si mostrerebbe capace di riprendersi da ogni tempesta senza scosse e ammutinamenti. Nella dinamica sociale - si legge ancora nel documento - "la sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole (...) non è sfociata in violente esplosioni di rabbia". Da altri comportamenti si coglie semmai il segnale dello scontento diffuso, visibile nell'indifferenza verso le forme di mobilitazione collettiva, considerate inefficaci; nella sfiducia nei sistemi democratici e nelle istituzioni europee, giudicate dannose; nel distacco dai valori un tempo aggreganti e nell'avversione verso l'egemonia dell'Occidente, ritenuto responsabile dei conflitti in corso. Queste tendenze si aggiungono a quelle rilevate l'anno precedente dove erano emersi il declassamento del lavoro nella gerarchia dei valori personali, il ripensamento del senso della vita e il reindirizzamento delle energie verso desideri individuali a bassa intensità. La metafora usata in questo caso paragona la condizione degli italiani allo stato di sonnambulismo (57° rapporto Censis).

Tornano in mente così alcune figure letterarie del diniego, dallo scrivano Bartleby con i suoi "preferirei di no", all'indolenza di Lady Bertram di Austin o all'Oblomov che dal sottosuolo dà sfogo ai sentimenti più oscuri e potenti della psiche umana, fino all'uomo che dorme dell'omonimo romanzo di George Perec indifferente al mondo mentre si trascina privo di desideri. Sono solo alcuni dei protagonisti di capolavori narrativi che mettono a nudo le afflizioni del postmoderno, anticipando i tratti di insofferenza e smarrimento che alimentano il rimosso collettivo.

Ma se da un lato il disincanto provoca sconforto, dall'altro esprime la denuncia di un organismo sociale che magari è diventato resiliente (infatti galleggia) ma sente cocente le delusioni dei movimenti a stelle e sardine e la smentita delle rassicurazioni dell'"andrà tutto bene"; una collettività che non si vorrebbe sottrarre dalla vita pubblica ma che evita di impegnarsi per il suo simulacro e che non si sente affatto appagata dal falso protagonismo dei social media nonostante non ne faccia a meno. Il disincanto dà voce, insomma, alla delusione per il mancato riconoscimento di ogni genere di istanze del corpo sociale, buone per gli slogan ma prive di conseguenze concrete.

La questione non è aggirabile con il generico giudizio di qualunquismo giacché l'opinione pubblica, seppure in maniera disarticolata e suo malgrado, sembra avere preso atto che l'attuale sistema, dis-funzionale per la maggioranza delle persone e ad alto tornaconto di pochi, è immodificabile dall'interno con i tradizionali strumenti della democrazia. E ancor più da un imprecisato luogo esterno, al di fuori cioè delle relazioni codificate, dell'irretimento comunicativo-tecnologico e dall'eccesso di velocità che ostacola perfino l'immaginazione di un possibile cambiamento. Tuttavia l'eccesso di chiacchiere e di retorica con la moltitudine di prodotti culturali destinati all'intrattenimento e al consumo, per tacere delle campagne di sensibilizzazione al fine di indurre comportamenti massivi codificati, fanno pensare ad un costante sforzo mediatico per coprire con un'identità distorta un'opinione pubblica nell'intimo più riottosa al consenso di quanto sia disposta a mostrare e altrettanto incerta sul da farsi. Questa soggettività sparsa in mille rivoli fatica a trovare un orizzonte di riferimento che ispiri forme inedite di cittadinanza e indichi nuovi modi di esercitare il diritto alla costruzione della vita democratica.

È perciò interessante che alcuni intellettuali stiano parlando da qualche tempo di una sorta di noluntas pubblica come scelta politica, evocata sottoforma di diserzione, di esilio, di assenza operosa ma pur sempre in diminuzione della dipendenza dal mondo. Libertà, insomma, in questa prospettiva non farebbe più rima con partecipazione e la scelta di "chiamarsi fuori" sembra il gesto politico più sensato e tuttavia densamente problematico da tradurre in proposte operative e ostico da far comprendere nelle conseguenze potenzialmente disturbanti di azione-non azione, anziché come disfattismo o rinuncia.

Senza alcuna pretesa interpretativa, ma solo come esercizio mentale, prendiamo in ipotesi il tipico dilemma che si manifesta nell'esercizio del diritto-dovere di voto. Si tratta dell'unico brandello di partecipazione alla vita politica istituzionale dopo la metamorfosi che il corpo elettorale ha subito nel tempo in una sottospecie di ufficio di collocamento per politicanti vecchi e nuovi e, contemporaneamente, in un bacino di costante sondaggio per misurare i rapporti di potere tra le forze politiche. La rappresentanza è l'ultima delle preoccupazioni degli eletti, preceduta con notevole distacco dall’obiettivo del rafforzamento dell'esecutivo, perseguito in varie fattispecie in nome della semplificazione, della governabilità, della volontà popolare, e via dicendo, ma di fatto stabilito solo con l'intenzione di ridurre il dibattito pubblico nei luoghi deputati. L'astensionismo provoca riprovazione e senso di colpa poiché il legame con i riti civili che hanno segnato passaggi epocali nel nostro paese, per quanto logorati, destano ancora un sentimento di profonda gratitudine verso coloro che hanno sacrificato la vita per un futuro degno e giusto per il paese. Ma oggi dobbiamo chiederci se quel valore venga onorato o profanato. Da anni la libertà nelle urne si è trasformata in una scelta contro qualcuno ed è ovvio che alla lunga il gioco stanchi perché il risultato finale, nella catena di comando globale, non è poi così decisivo per il cambiamento di rotta interno. Anche la classe politica galleggia con il favore ora di uno ora dell'altro dei venti. Dopodiché il dilemma del "che fare" resta in carico alla legittima scelta delle coscienze individuali, ma non c'è oggi una ragione inattaccabile per non attribuire dignità politica a chi decide di non partecipare in segno di disconoscimento.

Nella manifestazione del diniego si intravedono dunque due differenti posture: da un lato il sentire del senso comune che risponde all'esistente in maniera più o meno reattiva con i mezzi di cui dispone (l'astensione, la tastiera, la psiche, ecc.); dall'altro lato una posizione radicale ed elitaria che però ha perso l'aura dell'avanguardia e non possiede più la forza di trasformare lo scontento in massa critica. Il collegamento tra questi due versanti oggi è semplicemente impossibile per l'impatto che la tecnologia ha impresso alla vita sociale e alla quotidianità, dissolta in un flusso tecnologicamente amministrato. Ma è soprattutto la fisionomia della massa ad aver cambiato pelle, ora come mai frammentata e fragile, percorsa dal desiderio malriposto di "contare". Il passaggio alla sovraesposizione dell'ego si aggiunge così ai rimedi contro l'irrilevanza, senza considerare il prezzo esoso che viene chiesto in cambio, sottoforma di tracciamento e di giocosi dispositivi di addestramento dell'intelligenza artificiale. Il legittimo desiderio di autoaffermazione spiana la via verso il progressivo annientamento della soggettività, individuale e collettiva ma forse siamo ancora in tempo almeno per imitare l'esempio dell'Ulisse omerico che alla domanda "chi sei?" del ciclopico antenato dell'algoritmo ebbe l'astuzia di rispondere: sono Nessuno.