INCLUSIONE MA NON PER GLI ELETTORI
Tra i vari parti linguistici da cui è funestato il nostro corpo sociale, tra le “resilienze” e le “fluidità” appare particolarmente odiosa l’“inclusione”. Forse perché sarebbe qualcosa di veramente importante se fosse vera: non lasciare fuori nessuno, non escludere nessuno. Forse perché abbiamo deciso di ribattezzarci “società dell’inclusione” proprio alla fine di un percorso che comprende il crollo della partecipazione democratica e la distruzione del welfare (in particolare sanitario). Eppure la democrazia sarebbe la possibilità per ognuno di noi di esprimere una posizione sul mondo e sulla polis, di partecipare al processo di formazione del nostro vivere civile, di essere dentro e non sotto.
La nostra pretesa invece è quella di essere una società dell’inclusione e al contempo una società dell’emergenza. Un connubio impossibile da realizzare in cui la seconda caratteristica appare come il vero motore e la prima poco più di un paravento. In una società dell’emergenza le opinioni possono essere accettate solo se non mettono a rischio la sedicente gravità dell’emergenza in corso. Le emergenze che si susseguono e si intrecciano non possono includere ma devono segnare il confine tra i buoni e i cattivi, tra gli obbedienti e i disobbedienti. Le emergenze belliche segneranno il confine tra chi è incluso perché accetta in tutto la nostra collocazione geopolitica e il modo in cui la viviamo e tra chi è escluso perché la mette in discussione e dunque favorisce il nemico, cioè è un amico degli autocrati (e da qualche tempo anche un antisemita). Le emergenze pandemiche includono solo chi accetta i trattamenti sanitari decisi in compressione delle procedure democratiche e se ne dimostra persino entusiasta ed escludono tutti gli altri, veri nemici della società nonché, draghianamente, omicidi/suicidi. E così via, di emergenza in emergenza: emergenza patriarcale, omofobica, economica, climatica, energetica, finanziaria, postveritativa eccetera.
Sotto queste emergenze, tiene coeso il tutto la digitalizzazione ossessiva, progressiva e forzata della nostra vita mascherata dalla golosità con cui la maggior parte dei cittadini, ormai in addiction, chiede dosi sempre più massicce di digitale e di post-realtà. I nostri diritti di cittadini, la nostra inclusione, è ormai collegata non al nostro essere cittadini italiani o europei ma al possesso di uno smartphone e a un sufficiente sviluppo delle nostre capacità informatiche. Fate un esperimento: con un po’ di coraggio privatevi dello smartphone per qualche mese e vedrete che il vostro accesso alla società dell’inclusione sarà escluso. La società dell’inclusione è un guinzaglio poco visibile perché i cani che tentano di allontanarsi sono ormai un numero ridottissimo. Gli altri, del guinzaglio, non saggiano mai la resistenza e si convincono non ci sia.
La perfetta manifestazione di questa ipocrisia sociale è il momento del voto dove la società dell’inclusione si trova a votare solo con una minoranza dei suoi membri. Subito dopo i commentatori di corte indicano il numero degli astenuti come un grave vulnus democratico, una vera emergenza democratica ma, curiosamente, questa emergenza, a differenza di tutte le altre, non produce alcuna iniziativa legislativa o campagna d’opinione o divisione tra buoni e cattivi e in breve tempo scompare dall’orizzonte di pensiero di tutti. Poco dopo si ricomincia a parlare di partito di maggioranza, di rappresentanza degli italiani, di mandato degli elettori come se i veri numeri non fossero altri e per la prima volta nelle elezioni europee non fosse andata a votare la minoranza degli italiani (di misura ma minoranza). Si potrebbe aggiungere a questa maggioranza di renitenti un congruo numero di schede bianche e annullate (nel 2019 furono quasi un milione, quest’anno la zelante solerzia delle sezioni romane fa sì che ancora non si sappia il loro numero).
Dunque poco dopo la periodica derrota democratica che ormai ogni elezione è (chiunque vinca) gli intellettuali in servizio permanente effettivo (che si dividono in due categorie: quelli che non ritengono di dover salvare una apparenza di dignità e coloro che pensano che salvarla gli possa tornare utile per nuovi incarichi o ricollocazioni di schieramento) pensano di dover dire qualcosa in difesa “dei soci vitalizi del potere ammucchiati (…) a difesa della loro celebrazione” (De André, Sogno numero due).
Il primo tipo (il non dignitoso) può spingersi persino a sfoderare l’antica argomentazione (mantenendo la serietà) che vede gli elettori delle democrazie mature talmente sicuri della tenuta democratica e della qualità della loro classe politica da non andare a votare. Insomma gli elettori, come l’ufficiale tedesco in un vecchio film con Totò, darebbero loro “carta bianca”. Il secondo tipo prende un tono mesto e si preoccupa per qualche giorno per lo stato della democrazia ma con meno energia e convinzione rispetto a quando mette in guardia, a seconda della collocazione, dal pericolo rosso o dalla marea nera.
Pochissimi affermano con chiarezza che manca un’offerta politica, che non si sa cosa votare, che i precedenti “mandati” degli elettori sono stati radicalmente disattesi, insomma quello che chiunque sente dire al bar all’angolo ma di rado nei talk show. Eppure basterebbe fare un esperimento mentale, un’ucronia, di facile esecuzione. Si retrodati uno sbarramento come quello delle europee (al 4 per cento) all’inizio della storia politica repubblicana e si veda quale cultura politica sarebbe sopravvissuta. Ebbene il Partito Liberale, per decenni l’unico a dichiararsi esplicitamente liberale prima che lo diventassero tutti, non sarebbe stato presente nel parlamento italiano nel 1953, 1958, 1976, 1979, 1983, 1987, 1992. Come nei film di fantascienza potete già vedere sparire dalla fotografia della Repubblica le immagini di Einaudi, Croce, Zanone eccetera. Con il Partito Radicale è assai più semplice: non sarebbe mai entrato in parlamento in nessuna elezione. Anche qui si possono già tagliare le foto di Pannella e Bonino e, per gli appassionati degli esperimenti pannelliani, anche di Toni Negri e Ilona Staller. Mai presente anche Democrazia proletaria. Stessa cosa per il PSDI a partire dal 1984, mentre i repubblicani vengono esclusi ininterrottamente dal 1948 fino al 1983. Una strage di padri della patria.
Potremmo semplicemente dire che questo disboscamento odierno (che aumenta la rozzezza e la mancata varietà del dibattito), questa ortopedia elettiva serva per l’edificazione del bipolarismo. Ma a che serve quest’ultimo in un paese dove i governi non durano molto (come del resto ormai in Inghilterra) e le ammucchiate si susseguono, con veloce omaggio alla tecnica, al potere?
Diciamo invece, ogni tanto, la verità. Sbarramenti e raccolte di firme servono a blindare il sistema: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Non a caso dall’affermazione del Movimento 5 stelle non sono più apparsi nuovi soggetti partitici di qualche rilievo in parlamento e proprio quando costoro cercarono di entrare il fuoco di sbarramento mediatico fu tremendo (con il senno di poi una fatica eccessiva); poi man mano che gli esponenti del Movimento hanno tradito le aspettative degli elettori sono diventati presentabili e possono entrare ora anche nelle fotografie di famiglia della sinistra.
Orsù, uomini del potere, abbassate i ponti levatoi, fate entrare un po’ di gente nuova. Non temete. Qualora non sappiano stare a tavola in modo adeguato si provvederà. In fondo gli uomini sono deboli e possono essere spaventati, corrotti, messi al centro di uno scandalo o di tempeste digitali, resi esausti, infine molti sono già confusi o vili o scadenti per conto proprio. È un rischio che potete correre e magari avrete con poco pericolo nuovi soggetti da esecrare ché, diciamolo, esecrare chi è con te in maggioranza in Europa e in sala d’aspetto a Washington non rende la trama appassionante per il pubblico.