THE CLOSING OF ITALIAN MIND
Oggetto interessante quanto inquietante questo governo, il più ideologico degli ultimi decenni come annota Tommaso Montanari in un recente articolo. Proprio perché travestito da tecnico e appoggiato da quasi tutte le forze politiche (avversato, appena appena, da una opposizione di sua maestà) il governo appare oggi come il corrispettivo pratico del realismo capitalista, della convinzione che nessuna altra idea sia plausibile. Per rappresentare questa falsa totalità, per simulare movimento e differenza laddove vi è solo identità, gli è necessario inventare sfumature, differenze per accidens, inscenare false polarità (governo prudente ma aperturista, sviluppista ma green) per dissimularne l’angustia. Un range di pensiero fintamente largo su una piattaforma di dogmi, assiomi, truismi, un discutere continuo ma solo a partire da quelle che Federico Bertoni in Universitaly definisce “le parole magiche”: merito, eccellenza, valutazione, efficienza, competizione e via all’infinito.
Strano pensare che questa roba possa funzionare eppure, dopo le sperimentazioni montiane, dopo i vagheggiamenti sul partito della nazione, il caravanserraglio sembra procedere, tra promesse di appalti per i pesci più grossi e mancette per i meno ambiziosi, tra la connivenza di una stampa che conta gli anni di vita rimasti prima di defungere ed è disposta a tutto pur di allungare la propria agonia, tra la confusione mentale della gente e la comprensibile rassegnazione per una élite che risponde sempre e solo a se stessa.
In un governo che non spiega e lascia parlare i laudatores che lo circondano, l’uscita di un volume di un ministro (Nello specchio della scuola di Patrizio Bianchi, pubblicato nel tardo 2020 da il Mulino di Bologna) diventa un’occasione imperdibile per capire meglio. Il nostro ministro ha un curriculum di grande rilievo: ordinario, rettore, assessore regionale, coordinatore di un comitato tecnico del Miur, financo titolare di una cattedra Unesco di “Educazione, crescita ed eguaglianza” all’Università di Ferrara, eppure il suo volume sulla scuola è forse il più debole che abbia letto negli ultimi anni. Nulla anche di solo paragonabile ai testi di Viesti, Simone, Giunta, Russo, Bertoni ed altre decine di autori che hanno messo il sistema formativo nel proprio mirino. Nello specchio della scuola è steso con un linguaggio chiaro (e questo va a suo merito) ma banale, poco inventivo, retorico, in una sorta di richiamo ininterrotto ai buoni sentimenti, (“comunità solidale e coesa”, “nella scuola sta il battito della comunità”) quasi una declinazione meno aggressiva della retorica renziana: “agli shock si reagisce innovando e ritrovando un nuovo percorso” (p. 11), con un continuo ricorso ad alcuni loci linguistici tipici della neolingua scolastica (l’acronimo CAMPUS, la povertà educativa eccetera) o della neolingua tardocapitalista (“il capitale umano”) e formule non meglio specificate (cosa saranno mai queste “scorie” o “trappole del Novecento”, più volte citate, da cui Bianchi vuole fuggire? Che sia la possibilità di pensare oggi scomparsa?).
Bianchi invoca ripetutamente una scuola che migliori il senso critico (a p. 9, 17 e 32 ad esempio) e che migliorando se stessa rilanci lo sviluppo. Eppure nel libro è proprio il senso critico a latitare. A partire da uno sviluppo visto come fine in sé mai messo in discussione, mai analizzato o dialettizzato, visto come un dogma e reiteratamente messo alla base di tutto. Se lo sviluppo sia veramente progresso, se i modi di misurarlo siano ideologici o meno, sono pensieri che non sembrano mai sfiorarlo. A Bianchi tra l’altro non sembra poter venire in mente che una coscienza critica diffusa potrebbe porsi di traverso in una società basata sul consumo, sull’acquisto di merci spesso del tutto inutili e sul loro ricambio molto prima che sia necessario oppure che la delocalizzazione e la globalizzazione possano mal conciliarsi con la citata “comunità solidale e coesa”. Come la salute nell’antico detto, per Bianchi quando c’è lo sviluppo c’è tutto. Stessa certezza lo invade nel giudicare l’operato di Luigi Berlinguer (del tutto positivo), il monitoraggio INVALSI e l’alternanza scuola/lavoro. Sembra che nella mente di Bianchi, o perlomeno nella sua penna, l’idea di negativo, o di tragico non alberghi. Leggerlo ti fa pensare che le questioni siano semplici e le soluzioni, concertate e prive di sacrifici.
Nella sua ricostruzione della storia economica italiana “il senso critico” di Bianchi tutto armonizza e concilia: la crisi economica del 2008 e seguenti viene liquidata con “crescita impetuosa” ma anche “euforia finanziaria” (che ci si vuol fare, son ragazzi!) e conclude “tuttavia è proprio nella crisi più profonda che si predispongono le condizioni per le trasformazioni più radicali” (p. 28). Nella parte centrale del libro Bianchi ricostruisce a grandissime linee la funzione educativa nelle società passate, in una sorta di Bignami di antica memoria, attraversando in poche paginette la riforma luterana, la rivoluzione industriale inglese (di cui sembra cogliere solo gli aspetti positivi e per cui cela a stento l’entusiasmo), il dispotismo illuminato, la scuola italiana post-unitaria. Che sia questa la “via italiana” capitalista? una perfetta adesione a tutti i punti cardine del capitalismo contemporaneo con una spolverata di buoni sentimenti e sbandierato senso di comunità sorvolando sulle contraddizioni; un discorso politico dove si possa stigmatizzare a p. 140 la dipendenza da internet e i suoi rischi e a pp. 143-144 far partire uno spot sulla didattica a distanza, dove si chieda una maggiore presenza della scuola nella vita dei giovani e al contempo si proponga (a pagina 169) di accorciare da cinque a quattro anni il ciclo secondario.
Eppure, dopo aver attentamente letto e debitamente sottolineato e glossato il volume, quello che mi gira in testa ha a che fare, più che con il libro, con una sorta di meditazione sul mistero glorioso dei curriculum. Si alternano nella mente da una parte i curriculum del governo e del ministro, sbandierati su tutti i giornali, dall’altra il curriculum inserito quest’anno in prossimità degli esami di maturità da Bianchi (l’esame di Stato è un rito che sembra avere un certo potere attivante sui ministri in carica) e paracadutato sulla già vessata comunità scolastica. È il curriculum la chiave ermeneutica! L’arma per chiudere la bocca al nemico: “guardate che curriculum ha il ministro tal dei tali”. Si potrebbe dire molto su questa idea: innanzitutto che si basa sul concetto folle che esistano soluzioni tecniche a problemi politici e storici, si potrebbe inoltre segnalare che non si ricordano prove particolarmente esaltanti o significative di ministri tecnici; ma sotto tutto questo si trova un roccioso fondo di non detto ormai troppo scabroso per essere analizzato, cioè l’idea che il curriculum rispecchi davvero il valore di chi lo sbandiera. Mentre la società sviluppa un feticismo del curriculum i pochi esseri pensanti rimasti tra noi sono sempre più consapevoli del fatto che un curriculum non significhi quasi nulla. C’è un solo rampollo di famiglie ricche e potenti che non abbia un curriculum di gran livello? Con denaro e conoscenze i curriculum si costruiscono: un attestato di lingua preso in loco, un trimestre da visiting scholar all’estero nell’università alla moda, uno stage di prestigio, una presenza in un CDA, una chiamata in una fondazione in qualche modo collegata agli asset di famiglia e il giuoco è fatto. In che modo, ad esempio, la scarsa sagacia di un “figlio di” dovrebbe impedire, avendo il denaro, di accedere a un master di prestigio?
Per i più grandicelli invece una buona cordata di potere potrà sostituire i genitori ormai anziani e stanchi. In che modo la maggiore o minore genialità del nostro “curriculum climber” potrebbe modificare il curriculum stesso? E l’università? Si immagini, in ambito umanistico, un laureato molto bravo e molto studioso costretto velocemente alla gavetta delle supplenze scolastiche per sbarcare il lunario mentre studia e pubblica e un altro bravo la metà e collaboratore però di un docente universitario ben ammanicato. Chi credete avrà il miglior curriculum dieci anni dopo tra riviste di fascia A, convegni, semestri all’estero, direzioni di collane? I curriculum si costruiscono, come i record gonfiati dei pugili. Avremmo bisogno di più biografie e meno curriculum, di cogliere le traiettorie biografiche e valoriali delle persone per capire se possiamo plausibilmente fidarcene e non di plaudire alla raccolta di medagliette. Un curriculum dice più sulla vicinanza al potere (economico, accademico, mediatico) che sulla persona che lo possiede. Ecco, forse siamo giunti al punto. Il curriculum è importante non perché permetta di capire il tuo lavoro ma perché permette di capire la tua capacità di essere organico al potere, di restare in cordata, di farti malleabile.
La presenza ossessionante del curriculum nelle vite e nelle carriere crea per i centri di potere la possibilità di attrarre sempre più verso di loro. Meno si entra nel merito del valore delle persone (utilizzando magari bypass bibliometrici pur di non aprire i loro libri e vedere cosa hanno scritto) più fare il cane sciolto diventa letale e più il conformismo si fa regola. L’insegnamento è: bisogna stare nei pressi di chi è in grado di fornirti “certificazioni”.
Infine con il nuovo curriculum da stilare forzatamente, il diciottenne potrà meditare sulla differenza tra chi ha una famiglia abbiente e chi no; differenza che potrà così finalmente essere ufficialmente ostensibile già in giovane età. Ma vi è un secondo guadagno, assai gradito in tempi così “conformanti”, ed è il messaggio che nessuna attività non ufficiale, non istituzionale, non certificabile ed enumerabile valga la pena di essere perseguita. Libri letti, discussioni intelligenti con i coetanei e con gente più adulta, fare del bene al vicino fuori da terzi settori e volontariati vari, restano fuori dal sacro curriculum. Nei fatti si spiega al ragazzo che ciò non ha più senso. Ogni percorso di lavoro su di sé che non porti ad un certificato o a un credito è, e non da ora, fortemente sconsigliato. Come scriveva Sgalambro nel suo Dialogo sul comunismo la scuola ormai insegna solo “a stare tutti appiccicati insieme”. Adesso è il caso anche di accertarsi che colui al quale ci si appiccica sia in grado di rilasciare regolare attestato.