QUALE BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO?
L’attuale necessità della bellezza sembra essere unanimemente riconosciuta e finanche rivendicata. In questo mondo che appare sempre più imbruttito, forse anche perché sempre più imbrutito – con buona pace di certe bestie che sebbene brute non imbruttiscono l’ambiente in cui vivono –, non è la consapevolezza dell’urgenza della bellezza che manca ma la conoscenza stessa della bellezza che si vorrebbe rivendicare. Spesso, chi sostiene l’importanza della bellezza cita la famosa asserzione “la bellezza salverà il mondo”, mentre il tema è per sua natura problematico e già nello stesso testo di Dostoevski, (“L’idiota”, 1868-69), la domanda è: “quale bellezza salverà il mondo?”
L’interrogativo, che presuppone che ci siano diversi tipi di bellezza, è oggi più attuale che mai. Tuttavia, anche la molteplicità della bellezza, in parte conseguenza di certe posizioni relativistiche, sta perdendo la propria profondità a tutto vantaggio della superficialità delle immagini. Il fenomeno è tanto lampante quanto le immagini stesse che lo riflettono. A fronte di questa condizione della contemporaneità, registrata in modo attento e puntuale dal filosofo e best seller Byung-Chul Han nel suo “La salvezza del bello” (2015), la domanda iniziale si può riformulare come segue: chi salverà il mondo dal corrente concetto di bellezza? Ovvero cosa si intende per bello nell’epoca dei like? Questa bellezza ha ancora il potere salvifico che le si attribuisce?
In realtà, questi quesiti sono alla base delle riflessioni di Han, che si sofferma sulle attuali sfaccettature della bellezza, dalla levigatezza al bello digitale, dalla pornografia all’erotismo, dall’estetica della ferita e del disastro alla bellezza della verità e della reminiscenza.
La rimozione di ogni asperità, di ogni ostacolo, di qualsiasi interferenza che possa disturbare la vista e la consegna di un “mi piace” (I like) è alla base della ricerca del consenso e dell’approvazione di chi non cerca la bellezza ma solo il piacere. Questo vale per il politico come per l’influencer: si chiama così chi ha accumulato follower e like in quantità tali da diventare credibile agli occhi dei marchi (brand) che li usano, pagandoli profumatamente, per raccogliere prima le preferenze – con i like – e influenzare poi – in quanto follower – i comportamenti dei consumatori.
In apparenza non sembra esserci nulla di nuovo se ricordiamo cosa scriveva più di mezzo secolo fa Dwight Macdonald nel suo, breve ma intenso, scritto “Masscult e midcult” (1960): la cultura di massa ci ha fatto diventare tutti consumatori. È stato questo il prezzo che abbiamo dovuto pagare al cosiddetto benessere garantito dal sedicente progresso economico. A farne le spese è stato ogni aspetto della esperienza umana anche l’esperienza del bello che si è ridotta anch’essa a consumo. E le cose per essere appetibili per il consumatore devono provocare piacere. Il piacere non ammette sofferenze e asperità e deve essere consumato velocemente per lasciare spazio a nuovo piacere e di conseguenza a nuovo consumo. Il piacere si autoalimenta e si fonda su quella che Han chiama l’“estetica della levigatezza”. “La levigatezza” elimina ogni negatività, cancella ogni cicatrice ma anche ogni segno che disturba la vista, che perturba l’animo. La levigatezza cancella la memoria eliminando ogni appiglio che consenta all’oblio di riaffiorare. Nessun palinsesto è ammesso poiché i segni precedenti sono come le negatività a cui fa riferimento Han, poiché essi “rappresentano un ostacolo alla velocità di comunicazione” e di consumo.
La riduzione della bellezza alla sola provocazione di piacere compromette anche quel giudizio estetico che invece trova fondamento sulla contemplazione che scende in profondità, quella profondità che l’azione di levigare tende a colmare e a pianare. Di contro Han riconosce all’opera d’arte e quindi alla bellezza la capacità di provocare uno scuotimento in chi la contempla. Cosa che non provoca la levigatezza che, adattandosi a chi osserva, cerca solo un like. La mancanza di negatività, l’appianamento di ogni asperità produce un piacere senza nessun dolore, senza nessuna ferita, ma “senza ferita non ci sono né poesia né arte, e anche il pensiero si accende grazie alla negatività della ferita. Senza dolore e senza ferita esiste solo la prosecuzione dell’uguale, del familiare, del consueto.” E l’uguale e il consueto sono un’orizzontalità che produce noia e mancanza di curiosità che sta alla base della ricerca anche del bello. La ricerca del bello è invece una verticalità, una profondità, per usare le parole di Han, che ha agli estremi opposti disperazione – come massimo grado del dolore – e sublimità – come massimo grado della bellezza. Mentre la mancanza di profondità e la levigatezza si apparentano, per la immediatezza del piacere che producono, alla trasparenza e alla pornografia, che sono due dei diversi aspetti dell’attuale concetto, o forse è meglio dire, deriva della bellezza. La trasparenza, che nella società occidentale è spesso invocata a garanzia della verità e della partecipazione e quindi della democrazia, secondo il Nostro, “annienta l’immaginario, e paradossalmente non offre niente che si possa vedere.”
Inoltre la trasparenza si apparenta alla superficialità della pornografia che non produce alcuna tensione emotiva ma anzi solo noia e depressione. Di contro l’erotismo, che cela il bello che va svelato, è quell’attesa che crea tensione e sofferenza, a volte amabile supplizio, altre volte dolore, profondo spasimo per l’irraggiungibile. La bellezza si nasconde nell’erotismo che la trasparenza trasforma in pornografia. In questo senso il Nostro filosofo sostiene che: “la trasparenza non si accorda alla bellezza. La bellezza trasparente è un ossimoro: la bellezza è necessariamente un’apparenza. Vi è insita un’opacità.” Han colloca la pornografia nel suo luogo ideale che individua nella vetrina, che è per sua natura trasparente, serve a mettere in mostra un prodotto che vuole essere consumato subito, come la pornografia. L’erotismo invece risponde alle strategie del “nascondere, ritardare e distrarre” che sono anche le strategie del bello: “la strategia che nasconde parzialmente produce uno scintillio seducente. Il bello si manifesta indugiando. La distrazione protegge dal contatto diretto, ed è un momento essenziale dell’erotismo.”
I termini della dicotomia erotismo/pornografia così definiti si possono facilmente applicare al sapere e alle informazioni. Dove le informazioni, per loro natura trasparenti, si accostano alla pornografia e il sapere, che spesso è nascosto e va scovato, si associa all’erotismo: “l’informazione è una forma pornografica del sapere: è priva di quella interiorità che contraddistingue il sapere. Nel sapere è insita una negatività, in quanto non di rado lo si conquista vincendo una resistenza. Il sapere possiede una struttura temporale del tutto diversa, poiché si tende tra il passato e il futuro. L’informazione invece abita il tempo levigato fatto di presenti puntuali e indifferenti”. Questa informazione inoltre caratterizza lo spazio digitale dove alberga il “bello digitale” che, secondo Han, è antitetico al bello naturale perché non contempla nessuna negatività e si manifesta senza storia né memoria solo nel tempo presente, ora e qui mentre si consuma, consumandosi nell’atto stesso di essere consumato.
Queste sono, secondo le condivisibili riflessioni di Byung-Chul Han, le ragioni della crisi del bello che interessa la società contemporanea che è votata solo al “piacevole” e al “confortevole”. Per il Nostro filosofo invece, “la salvezza del bello significa salvezza di ciò che vincola e impegna a una responsabilità” che non sempre è piacevole e confortevole. E allora per concludere, se mi si consente una facezia, verrebbe da aggiungere che ognuno si salvi più che può che tutti insieme ci salveremo un po’ di più.