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LE VIE DELLA DEMOCRAZIA

Sulla natura complessa, problematica, contraddittoria, perfettibile della democrazia, la letteratura è vastissima.Tra i testi più recenti un posto di rilievo spetta a quelli del politologo francese Yves Mény. Già autore di libri come «Populismo e democrazia» (con Y. Surel), il Mulino 2001, «Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico», il Mulino 2017 e infine «Democrazia: l’eredità politica greca. Miti, Potere, Istituzioni», Ariele 2022, Mény ha ora dato alle stampe un pregevole volume che fa il punto su «Le vie della democrazia», il Mulino 2024, pp. 248, € 16,00, dall’Atene del V secolo a.C. ai nostri giorni.

Scorrevole e godibile carrellata storica, che scandisce le tappe fondamentali di quel regime politico, di cui – puntualizza Mény – «l’Europa non ha il monopolio ma ha quello di averla inventata. Sono gli Europei che, a partire dall’esperienza di Atene, hanno ideato la parola e la cosa». Che però, dopo quella esperienza (508-338 a.C.), scompare dall’orizzonte lessicale e politico. Già a Roma, infatti, ‘democrazia’ viene sostituita da “res publica”, che incarna un valore socio-politico opposto. E Mény opportunamente sottolinea che, «di fatto, ciascuna esperienza ha dato origine a due forme distinte di democrazia: una diretta, esercitata da tutti i cittadini ad Atene, una d’élite a Roma, dove la maggior parte dei cittadini, sotto la repubblica, venne di fatto emarginata, a vantaggio della ricca oligarchia che controllava il Senato».

Sarà nell’alto Medioevo l’espansione urbana col conseguente nascere dell’esperimento politico dei Comuni e «l’emergere di una classe mercantile [che] ribalterà “l’immaginario del feudalesimo”, come ebbe a dire Georges Duby, con notevoli conseguenze economiche e politiche e quindi anche decisive per l’evolversi della democrazia», anche se «il valore al quale nell’esperienza dei Comuni compete il primo rango» è la libertà (secondo un detto tedesco, “l’aria della città rende liberi”)».

Ma è con la Riforma protestante di Lutero (1517) e poi di Calvino che il quadro generale cambia radicalmente. Infatti, il “libero esame”, senza la mediazione della gerarchia religiosa, fa affiorare l’autonomia di ogni persona nella ricerca «della Verità espressa nelle Scritture». Nel conflitto, aspro, che si aprì tra l’imperatore Carlo V e i principi ribelli tedeschi, che sostenevano Lutero, «benché non siano state mai rese esplicite richieste o proposte “democratiche”, il potere assoluto, sia religioso che politico, venne fortemente sfidato, determinando modifiche radicali all’ordine sociale alla fine del Medioevo e ponendo così le basi per la futura democrazia».

Fu però nel XVII secolo che maturò la prima, vera rivoluzione, “la lunga rivoluzione inglese (1649-1689)”, culminata nella Gloriosa Rivoluzione del 1689, che «segna un punto molto alto nell’epica politica britannica», in cui un ruolo di rilievo spetta al pensiero liberale di John Locke. La monarchia al potere, «temperata da costumi e tradizioni», diede infatti «origine alla principale innovazione del parlamentarismo moderno e quindi del sistema rappresentativo: i partiti politici», in nome della principale rivendicazione inserita nella “Declarations of Rights” (1689): nessuna tassazione senza il consenso del Parlamento. Appresero bene la lezione inglese i rivoluzionari americani, i quali, «un secolo dopo fonderanno la legittimità della loro ribellione alla madrepatria utilizzando gli stessi argomenti che il Parlamento aveva usato contro il re: “No taxation whitout representation”» e che porteranno alla “Declaration of Independence”, firmata a Filadelfia il 4 luglio 1776. A più lungo termine, «i due modelli fratelli, il parlamentarismo britannico e il sistema dei ‘checks and balances’ americano, diverranno i punti di riferimento universali per tutti i paesi che cercheranno di ottenere l’indipendenza dai loro colonizzatori o di modernizzare le loro istituzioni».

Appena pochi anni dopo, nel 1789, «è in Francia, e precisamente a Versailles, che raggiungiamo una delle tappe principali del processo di creazione della democrazia moderna». È l’inizio della Grande Rivoluzione, quando, per le proteste dell’intera Francia dovute a una carestia che affliggeva di più le classi povere, il re Luigi XVI convocò gli Stati generali (l’ultima convocazione era avvenuta 175 anni prima). I rappresentanti del Terzo stato (il 98% della popolazione!) fecero sentire il loro peso numerico, convinti che «solo un voto per testa (e non per ordine [clero, nobiltà e Terzo stato]) poteva superare il voto dei privilegiati». Si giunse, così, alla formazione di «un’assemblea unica composta da rappresentanti uguali che esprimevano la “volontà nazionale”». E fu l’Assemblea che il 26 agosto 1789, con la “Déclaration des Droits de l’homme et du citoyen”, sancì il riconoscimento dei diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, tra cui la libertà e la resistenza all’oppressione e sul piano giuridico l’uguaglianza tra persone, indipendentemente dall’appartenenza al ceto, «scordandosi – ironizza Mény – ovviamente di quelle di genere e di etnia…».   

Da quel momento, libertà e democrazia convivranno, ma sovente la loro coabitazione sarà difficile e contrastata in ogni Paese in cui si affermeranno le democrazie rappresentative, che, pur minacciate oggi dall’odio e dal risentimento dei populismi «in nome di un sedicente “popolo” di cui ciascuno si considera l’incarnazione e un autentico portavoce» (ma il populismo – chiosa Mény – «riesce a sopravvivere solo se le masse in rivolta riescono a trovare e a identificarsi con un leader carismatico»), resistono grazie alla loro adattabilità. Perché «la democrazia, che è sempre in evoluzione, imperfetta, mutevole e adattabile, è un mix di valori, istituzioni, credenze e convenzioni. Si tratta, nel senso migliore del termine, di un bricolage concettuale e istituzionale, arricchitosi ulteriormente dopo la Seconda guerra mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica e dei suoi Stati satelliti. Soprattutto nella tutela dei diritti fondamentali, che era oggetto di un’attenzione parziale, ma è diventata un pilastro centrale dell’attuale definizione di ciò che costituisce una vera democrazia».

Al tirar delle somme, il libro di Mény conferma quanto egli stesso dichiara nella nota bibliografica: che «l’obiettivo di questo libro era ripercorrere le tappe, confuse e talvolta contraddittorie, del percorso di quella particolare forma di governo che è la democrazia rappresentativa, sia nel suo emergere storico fattuale, sia nell’elaborazione nella storia delle idee». Perciò, il lettore che pensasse di trovare nelle pagine l’analisi di problematiche connesse con la crisi attuale della democrazia, se non col suo declino (si pensi, quantomeno, alla definizione di “postdemocrazia” formulata da Colin Crouch, peraltro nemmeno citato nella breve bibliografia, che denunciava, già nel 2003, anno di uscita del libro suo più famoso, Postdemocrazia, l’allarme dei politici «per la crescente apatia dei votanti e il declino dell’adesione ai partiti»), resterà deluso. Certo, non mancano cenni al sovranismo nazionale, al ridimensionamento sempre più diffuso, nelle democrazie euro-occidentali, della ‘vocazione’ all’accoglienza della democrazia come “società aperta”, al crescente rifiuto degli Stati nazionali europei di cedere quote di sovranità alla Ue, ma Mény non scende mai nel vivo delle polemiche, presentandole, semmai, come incidenti di percorso di una sempre accidentata storia della democrazia liberale rappresentativa, che, sì, «è imperfetta, ma insostituibile, come dimostra il fallimento della “democrazia socialista”, il cui sogno iniziale è finito nel crollo del 1989», e che, allo stato delle cose, resta l’unica forma di democrazia possibile (e la meno peggiore, parafrasando Churchill).