ANNI DOPO I PRIMI AVVISTAMENTI…
Qualche anno fa, era il 2015, quando uscì per la prima volta il libro di Davide Miccione dal titolo “Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo”, preparai una presentazione che, rifacendomi alle parole del testo, intitolai “Avvistamenti”. L’autore, infatti, invitava e continua a invitare (anche nella nuova edizione del 2022 per i tipi di letteredaQALAT) il lettore ad avvistare «una nuova figura contemporanea caratterizzata da una sua particolare interazione con il sapere» (p. 51): «l’ignorante ipermoderno». Una nuova categoria che cominciava a racchiudere un numero - ahinoi! - sempre più crescente di persone.
Da quel momento storico è passato poco più di un lustro, ma la società “contemporanea” non è più la stessa. Eventi di portata epocale si sono succeduti e, mentre eravamo tutti rinchiusi in casa per affrontarli – forse in tutta sicurezza sanitaria ma non di certo al sicuro dai cambiamenti sociali e culturali – il mondo è cambiato anche in termini di avvistamenti. Gli avvistatori, chiamati “alle armi” come vedette da Miccione, hanno cambiato, loro malgrado, il proprio ruolo che, con una prevedibile inversione delle parti, li ha posti nella condizione di potenziali avvistati. E non perché anch’essi rientrino nella categoria degli ignoranti ipermoderni, ma per il significato stesso di avvistamento. L’avvistamento evoca qualcosa di raro o di molto lontano da scorgere, come una nave nemica o come una specie in via di estinzione oppure alieni venuti dallo spazio più remoto, caratteristica che sta assumendo sempre di più l’avvistatore, individuato da Miccione nel letterato piuttosto che nell’intellettuale spesso distratto. Sono sempre meno gli avvistatori e sempre di più gli avvistati che proprio per questa inversione di numerosità vedono invertirsi i ruoli. Il quasi completamento della affermazione della specie degli ignoranti ipermoderni mette questi ultimi in una condizione di tale abbondanza da rendere rari, sempre più rari, i vecchi avvistatori. Peccato che il potenziale nuovo avvistatore rimanga tale, ovvero avvistatore in potenza ma assolutamente impotente perché incapace di scorgere alcunché dato che «l’ignorante ipermoderno, più semplicemente, non si fa alcuna domanda sul funzionamento della realtà» (p. 30). E chi non si fa più domande sulla realtà come potrà mai scorgere qualcosa di diverso? Come potrà intravedere i cambiamenti? Come potrà anticipare le sconvenienze? Come potrà essere libero di scegliere consapevolmente? Come potrà comprendere, condividendone o meno la posizione culturale, queste stesse domande? Come potrà contribuire al benessere della società? Come potrà superare se stesso e i propri limiti? Si sentirà illimitato come quelle «persone - secondo quell’aforisma attribuito a Oscar Wilde - che sanno tutto, ma purtroppo è tutto quello che sanno».
Cosa succede al dubbio, arte della conoscenza (Socrate), altro nome dell’intelligenza (Borges)? Non c’è più spazio per il dubbio, neanche nella scienza che si è sempre alimentata del dubbio e che oggi invece vanta di possedere verità assolute. Scienza dogmatica che contraddice gli stessi principi epistemologici tanto che puntualmente è costretta a smentire se stessa. Il problema è che nessuno se ne accorge più. E non se ne accorge più nessuno, o sempre meno persone, proprio perché l’ignoranza ipermoderna impera.
Il mondo è davvero cambiato e il libro di Miccione conferma ancora oggi il proprio carattere analitico e profetico: «Il mondo come oggetto di conoscenza va svanendo. Cosa resta allora? Sembrerebbe una confusa ed emotiva socializzazione. Un bisogno di restare in contatto non si sa bene per fare o dirsi cosa. A fronte di ciò, è proprio la solitudine del processo di acquisizione della conoscenza, in quanto concentrazione e sospensione momentanea della socializzazione ossessiva e continua (twitter, controllo pagina facebook, sms spediti e ricevuti, squillo ricevuto e inviato per dire “ti penso”, messaggio su Whatsapp, eccetera) ad incutere una profonda paura. Il prezzo minimo per acquisire conoscenza, in altri tempi neppure rilevato a certi infimi livelli, cioè una qualche concentrazione e una permanenza nella memoria a medio termine di un discorso qualsiasi, per la prima volta appare, all’ignorante ipermoderno, oneroso» (pp. 38-39).
Una fotografia della realtà così bene messa a fuoco non poteva essere scattata se non da un attento osservatore immerso nella realtà ma allo stesso tempo distaccato quale è Davide Miccione. Immersione e attento distacco che contemporaneamente gli consentono ancora avvistamenti che ad altri sembrano ormai negati. Tuttavia, una concentrata lettura e comprensione del libro – posto che si abbia del tempo senza distrazioni da impiegare per leggerlo – può orientare uno sguardo più consapevole sulla realtà di cui facciamo tutti parte e che, mi sia condonato il gioco di parole, in parte fa tutti noi. E sebbene Davide Miccione dica che «in fondo l’unica cosa che questo libro chiede al suo paziente lettore: prendere posizione. Una qualunque ma coerente» (p. 84), nei fatti si tratta di una vera e propria chiamata alle armi della consapevolezza contro il dramma dell’ignoranza: non si può, né si deve, ignorare l’ignorante. La “caccia” all’ignorante con il solo scopo di scacciare l’ignoranza dalla società attuale con tutte le conseguenze che ne derivano e che ben mette a fuoco Miccione nel suo libro.
In uno scenario così attualizzato però si deve registrare un altro aspetto di questa condizione umana: ci sono sempre meno lettori di libri e che, come dice lo stesso Davide Miccione, «i non lettori e i lettori non pensano nello stesso modo» (p. 168). Non si tratta di una discriminazione pregiudiziale ma di una constatazione fondata sui dati e sugli esempi che con rigore di statistica e di cronaca sono riportati nel libro. Tuttavia, «senza una maggiore consapevolezza della povertà culturale e cognitiva in cui siamo caduti e della gravità dei suoi effetti sulla nazione e sulla democrazia ogni indagine ulteriore sulle cause prossime e remote non ha alcuna speranza di spingerci verso un cambiamento» (p. 52).
Riconoscere la soglia del baratro verso cui ci stiamo muovendo deve aiutarci a fare un passo indietro e non in avanti, come il senso comune invece vorrebbe. Neanche di lato, ma proprio indietro a cominciare dal riconoscere che certi modelli di formazione del nostro passato hanno garantito a più di una generazione di immunizzarsi dal virus dell’ignoranza più bieca, mentre inseguire modelli culturali esotici o sedicenti scientifici – di una tecnica camuffata da scienza - ci farebbe precipitare in quel baratro di certezze e verità assolute che non danno nessuna libertà di messa in discussione e di reale ricerca.
Quest’ultima affermazione che può suonare come reazionaria e conservatrice vuole invece proiettarsi verso una autentica e profonda innovazione che non può darsi senza rivolgere uno sguardo al passato che in quanto tale si offre nella sua compiutezza a ogni tipo di riflessione e di conseguente accettazione o negazione consapevole. Il compito che ci affida Davide Miccione, come suoi pazienti lettori, però non è per niente facile, ma assai difficile e complicato. Ragion per cui vorrei concludere queste brevi note di presentazione, formulando un augurio, tutto contenuto nel titolo del libro di Marcello d’Orta che entrambi i prefattori delle due edizioni – Angelo D’Orsi della prima e Francesco Coniglione dell’attuale - di “Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo” hanno usato come incipit per le loro notazioni, che innanzi tutto faccio a me stesso e che è, data l’attuale atmosfera “culturale” che si respira, anche una mia seria preoccupazione, quindi: Io speriamo che me la cavo.