FROMBOLIERI DEMOCRATICI
Geminello Preterossi è, già da qualche anno, uno dei punti di riferimento politico-teorici più affidabili per tutti coloro che non hanno ritenuto gli eventi dell’ultimo quadriennio come naturali e necessari quasi fossero la pioggia o il tramonto (insomma l’inquietante idea che giacché c’è la guerra, la pandemia, il terrorismo e la crisi climatica allora tutte le scelte conseguenti sono necessarie e indiscutibili) bensì come eventi storici e politici in cui le scelte umane e politiche e le forze e gli interessi in campo hanno avuto grande spazio nel definire le conseguenze e perfino nel costruire la figura dell’evento stesso.
Tra coloro che non pensano dunque che la scienza (o meglio quel grosso carro di cartapesta che ad essa dal 2020 con sempre maggior frequenza si va sostituendo) abbia eliminato o debba eliminare la politica e non pensano che la storia continui ad essere comunque finita (come se sapessimo una volta per tutte chi ha torto e chi ha ragione: sempre gli stessi guardacaso) ascoltare o leggere Preterossi può costituire un’esperienza chiarificante o perlomeno consolatoria. Per questo diamo conto in questa recensione, seppur con ritardo, di un suo libro dal titolo Contro Golia uscito nel 2020 per i tipi della Rogas di Roma, casa editrice che per coloro che vogliono ragionare seriamente su questi ultimi anni sembra costituire ormai un importante presidio. Il Golia dal titolo rimanda palesemente all’enormità e pericolosità delle dimensioni sovrastatali che sempre più caratterizzano il nostro coraggioso mondo nuovo.
Qualche parola in più merita il sottotitolo: Manifesto per la sovranità democratica. Il genere editoriale a cui appartiene il libro, cioè il libro-intervista (Preterossi qui dialoga con il bravo Gabriele Guzzi) rimanda ad una tradizione importante in Italia (Colletti e De Felice per la Laterza i primi nomi che vengono in mente) ma in verità mal si presta a fungere da Manifesto. Il genere manifesto, da Marx alle avanguardie artistiche o, per citare cose a noi cronologicamente e tematicamente più vicine, al britannico Manifesto Accelerazionista di Williams e Srnicek del 2018, produce sempre testi assertivi e decisi, interessati più all’ostensione che al dialogo, più alla nettezza delle tesi che alla raffinatezza delle sfumature.
Eppure, il resto del sottotitolo, “la sovranità democratica”, fa sì che, seppur per vie editoriali traverse, Contro Golia riesca a svolgere in qualche modo le funzioni di un manifesto. Preterossi più di tutti riesce a capire e far capire che non è questione di nazione o di patria, di essere contrari al cosmopolitismo o di essere anti-illuministi e magari vandeani nello spirito ma più semplicemente di voler prendere sul serio la democrazia, di voler ristabilire la democrazia, di esplorare le attuali condizioni di possibilità della democrazia. Basterebbe, a voler essere perfidi, che il benestante progressista medio italiano mettesse solo metà dell’impegno profuso a occuparsi della filiera corta adottata dai produttori dei suoi cibi e dai suoi ristoratori preferiti e indagasse invece la “filiera” quanto mai elongata della democrazia e avremmo già un esercito di zelanti guardie della salute democratica già pronto e operativo. Basterebbe chiederci quale distanza ci sia tra noi, semplici elettori, e un alto funzionario OMS. Come potremmo in qualche modo condizionarlo o persino esprimere un consenso sul suo operato? E che voce in capitolo ha il semplice elettore su comitati tecnici, authority, grandi accordi commerciali? Queste potrebbero essere alcune buone domande di partenza, che pochi però si pongono.
Esiste un solo tema sembra dirci Preterossi, che non è il clima o la guerra o il virus bensì la democrazia, la nostra cultura democratica, oserei dire la nostra antropologia democratica: “la democrazia, anche quella deturpata e distrutta dai trent’anni di neoliberismo trionfante, è il luogo da cui ripartire” (p. 23). È costretto il Nostro a ricordarci la natura anti-elitaria, anti-oligarchica, anti-dogmatica, anti-accentratrice, e infine filosofica della democrazia, è costretto a ricordarcene la crisi ormai conclamata e il disinteresse che per essa hanno le nostre élite: “accettare che la democrazia sia l’anima del conflitto sociale è insopportabile, sia per gli ordoliberali tedeschi, sia per gli attuali europeisti” (pp. 56-57).
Questa preoccupazione per la democrazia e questa lettura della centralità della questione è importante anche perché meno comune di quanto si pensi in chi esprime una opposizione radicale per questi ultimi decenni di scelte politiche. Si prenda a mo’ di esempio L’eclissi, interessante dialogo tra Bifo e Formenti uscito per Manni nel 2011 (le pagine 29-36 in particolare) e si vedrà la diffidenza e il disinteresse, a volte perfino l’imbarazzo, che la democrazia di stampo novecentesco desta in molti dei nostri più lucidi intellettuali.
Gli operatori dei media intanto (il nuovo clero di cui parla Costanzo Preve) sembrano in destruens concordare sulla crisi, la debolezza, il tramonto della democrazia, ma solo dopo aver tolto dal mazzo quelle cause e quegli ambiti che non garbano alla propria parte politica d’appartenenza (il mensile de Il Fatto Quotidiano è riuscito nell’impresa, ad esempio, di dedicare diversi mesi fa un numero monografico alla post-democrazia, peraltro di buona qualità, senza mai citare nulla che riguardasse il triennio pandemico, evidentemente massima espressione del giardino in fiore delle nostre libertà). Dunque la democrazia è in crisi ma per la destra è colpa della sinistra e per la sinistra è colpa della destra, oppure è colpa della masse populiste mentre le nostre classi dirigenti cercherebbero di salvarla, oppure è colpa degli autocrati ma qui nel Patto atlantico la libertà cresce, pasce e così via. Ognuna di queste mezze verità si abbatte sullo stato della nostra democrazia e impedisce non solo ogni terapia ma persino una accettabile diagnosi.
Da buon teologo della politica Preterossi mette l’accento sulla necessità di costruire risorse simboliche etiche: “effettivamente a lungo si è pensato che fossero i processi economici a determinare quelli politici-culturali. In realtà non è così. Il neoliberismo è stato una grande battaglia egemonica vinta, elaborata e combattuta attraverso fondazioni, think tank, gruppi intellettuali, dipartimenti di economia” (p. 24). La democrazia è dunque in crisi, si potrebbe dire con grande semplicità, anzitutto perché della sua sopravvivenza importa solo a una parte infinitesimale della classe dirigente.
La diagnosi di questa crisi Preterossi ha il coraggio e gli strumenti per farla e analizza storicamente e filosoficamente i singoli elementi della nostra sofferenza democratica. Storicamente attraverso una rilettura degli ultimi cinquanta anni, sottolineando alcuni passaggi dei primi anni ottanta con lo scontro Andreatta-Formica su Tesoro e Banca d’Italia oppure annotando come l’eredità della cultura azionista che ha innervato la tecnocrazia italiana abbia sempre conservato “un nucleo di ostilità anti-popolare” (p. 65) non semplice da conciliare con la democrazia. Infine terminando con Maastricht con cui gli italiani “stavano firmando, senza saperlo, la disattivazione della nostra costituzione economica” (p. 63)
In secondo luogo filosoficamente Preterossi organizza il discorso a partire dal tramonto dell’autonomia del politico e da una rilettura della modernità: “La modernità cioè non nasce con la neutralizzazione della dimensione metafisica, semplicemente sorge sull’elaborazione di un’altra metafisica, che contesta l’impostazione precedente, la metafisica della sostanza di stampo aristotelico e tomista” (p. 73) e infine da una versione “urbanizzata” di Schmitt in cui si mette in evidenza come la questione dei confini spaziali e simbolici non possa semplicemente essere abolita perché ormai alle nostre delicate orecchie suona male: “il pensiero globalista ha seriamente creduto alla rimozione di alcune sfide fondamentali dell’essere umano, quelle della violenza, dei bisogni identitari, di protezione sociale, e poi dell’intera dimensione della politica” (p. 11). La sensazione è che questa eliminazione della questione dello Stato e della sua collocazione geopolitica sia fatta a misura di una classe finanziaria senza limitazioni spaziali più che essere a misura dei redditi dipendenti o comunque geograficamente vincolati. Mentre, afferma Preterossi, l’uomo polverizzato non coglie più i propri interessi di classe, lo 0.1% più ricco della popolazione sembra coglierli benissimo.
In questa stasi depressiva il populismo è dunque anche positivo, sebbene resti finora amorfo, come rifiuto di una rassegnazione. Anche la nazione non può essere pensata solo come inevitabile fonte di sciovinismi ma è stata protagonista (si pensi a Mazzini o alla Rivoluzione Francese) di lunghe fasi emancipatorie. Insomma fra le righe anche Preterossi segnala la necessità di fare i conti con il passato e ovviamente con il Novecento (La ricostruzione dark del secolo scorso è del resto una delle principali basi di costruzione di questo ventunesimo secolo socialmente e politicamente invertebrato) invece di cercare soluzioni censorie: “io sarei molto cauto ad affermare il bisogno di un ministero della verità, magari organizzato da qualche colosso digitale e farmaceutico che ci dice quali siano le fake-news e quali no. Preferisco che ci sia qualche fake-news in più su internet piuttosto che venga negata la libertà” (pp. 45-46).
Insomma tenere il punto sulla democrazia significa resistere alla polarizzazione e alla stenosi del pensiero. In questa fase, e una volta tanto, potrebbe essere un farmaco per tutti e senza controindicazioni.