MAGISTER
Nonostante la sempre inalterata “miseria” degli stipendi di maestri e professori, che pur «fanno il mestiere più bello, più importante, più misconosciuto del mondo» (Ivano Dionigi), e le varie riforme che, nell’ultimo trentennio, alcuni ministri del Miur (da Berlinguer alla Gelmini, fino alla “Buona scuola” di Renzi e della ministra col diploma di maestra d’asilo Valeria Fedeli e alle recenti “Nuove Indicazioni Nazionali” dell’attuale ministro del MIM, Valditara) hanno varato pensando di migliorare tecniche d’insegnamento e contenuti, la solida struttura della riforma gentiliana consente alla scuola italiana di restare ancora una delle migliori nel panorama internazionale, a tutti i livelli: dalla scuola dell’infanzia alle scuole medie inferiori e superiori, dove il primato del liceo classico rimane invariato, nonostante gli attacchi concentrici che, ormai da decenni, subisce da parte di chi, volendo ridimensionare lo studio del latino e del greco (in favore delle cosiddette “scienze dure” note sotto l’acronimo STEM), che sono l’invidia dei sistemi scolastici del mondo intero, vorrebbe decretarne la fine (l’Università merita un discorso a parte, che chiama in causa la sciagurata riforma del 3+2, di cui il ministro Luigi Berlinguer menava vanto, ma che, per i professori che ci lavorano, è stato l’inizio di un inarrestabile declino, specialmente per le facoltà umanistiche, come denuncia Walter Lapini, professore di Letteratura greca nell’Università di Genova, nel saggio “Studi classici e scuola di massa”, inserito nel libro collettaneo «Università addio – La crisi del sapere umanistico in Italia», Rubbettino 2024).
Proprio il sopra citato Ivano Dionigi, professore emerito di Lingua e Letteratura latina dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, di cui è stato rettore dal 2009 al 2015, ha da poco licenziato alle stampe «Magister – la scuola la fanno i maestri non i ministri», Laterza 2025, pp. 132, € 15,00, libro encomiabile e coraggioso, in cui, tra autobiografia e analisi puntuale dei rischi di arretramento culturale connessi con l’oblio dei classici, l’autore definisce «la scuola come fulcro e avamposto civile del Paese, nel momento in cui le istituzioni formative, come la famiglia e la chiesa, hanno perduto la loro centralità formativa. La scuola come “contrappeso” e anche “contraltare” al monoteismo tecnologico imperante, che ci isola e ci tiene avvinti alle spire del presente. La scuola come esperienza prima della ‘polis’, dove i ragazzi si riconoscono come comunità di uguali, e quindi come luogo naturale per l’integrazione dei nuovi cittadini. La scuola come palestra del ‘dialogo’: vale a dire del confronto, dell’incontro, dell’incrocio del pensiero dei giovani con quello degli adulti», cioè dei maestri, i quali soltanto – secondo la sentenza, ripresa da Dionigi nel sottotitolo, del grande filologo del Novecento, Manara Valgimigli – ne sono gli agenti educativi.
Dionigi, già ad apertura di libro, enuncia la sua forte opposizione verso «aziende, mercato, bandi europei, ranking internazionali», che sollecitano a «trasferire alla società competenze e conoscenze di utilità immediata», che invece valgono come «finalità secondarie ed effetti collaterali», e – a rinforzo della sua tesi – aggiunge la risposta che trent’anni fa l’allora rettore di Harvard Derek Bok diede «a chi sostiene che al mondo dell’educazione spetti insegnare un mestiere»: «Se pensate – scrisse in una lettera agli studenti – di venire in questa università ad acquisire specializzazioni in cambio di un futuro migliore, state perdendo il vostro tempo… Noi possiamo solo insegnarvi a diventare capaci di imparare, perché dovrete reimparare continuamente».
Giustamente persuaso che «a Prometeo, profeta della tecnica, è necessario affiancare Socrate, il profeta dell’umanesimo», colui che «per primo ha richiamato a gran voce la filosofia dal cielo, l’ha trasferita nelle case e portata a interessarsi della vita, dei costumi, del bene e del male» (Cicerone, “Le discussioni di Tuscolo” 5, 10), Dionigi chiama in aiuto Steve Jobs, il quale, in occasione del celebre discorso nell’Università di Stanford, sostenne che «è nel DNA di Apple che la tecnologia da sola non basti. È la tecnologia sposata con le arti liberali, sposata con le scienze umane, che produce i risultati che fanno cantare il nostro cuore».
Forte dell’esaltante lezione appresa insieme ai suoi studenti durante i quarantacinque anni di insegnamento universitario, Dionigi spiega come sia urgente, «nell’era del monoteismo tecnologico […], formare persone egregie e non gregarie, vale a dire intelligenze libere e capaci di porre limiti e ribellarsi a macchine più o meno intelligenti» e come, per ottenere quei risultati, a nulla valgano le tre I di Inglese, Internet, Impresa con cui la ministra Moratti «intendeva riformare la scuola e il mondo della formazione». Piuttosto, Dionigi, da perfetto umanista, ritiene «che le nuove istanze e i nuovi squilibri vadano iscritti nell’orizzonte dei fini, del tempo, dei giorni a venire, e che a tale scopo debba essere interpellata un’altra triade, marcata anch’essa da una triplice ‘i’: Interrogare, Intelligere, Invenire. Tre voci che andrebbero scolpite all’ingresso delle nostre scuole, università e istituzioni formative».
Infatti, sostiene Dionigi, «la ‘paidéia’ classica, per molti versi superata nelle risposte, si rivela inarrivabile nelle domande». A partire da quella fondamentale, socratica, “Tu chi sei”, posta un giorno a Gorgia, col corollario del motto delfico “Conosci te stesso”. Mentre «è illuminante conoscere appieno l’accezione, la bellezza e la nobiltà della parola latina ‘intelligere’, iscritte nella sua duplice etimologia: “cogliere (‘legere’) l’essenza, la profondità, il dentro (‘intus’) delle cose” e “cogliere la relazione, il rapporto, il nesso (‘inter’) tra le cose». Infine, Dionigi invita a «recuperare il senso autentico della parola ‘invenire’, ovvero “scoprire”, nel duplice significato di “disseppellire e recuperare il ‘notum’”, la storia, il passato, la memoria che abbiamo rimosso e sotterrato; e di “inventare e sperimentare il ‘novum’”, il mai visto, il mai vissuto, l’inaudito. Vale a dire, confrontare e coniugare la lezione dei classici, dei maestri, dei padri con le domande dei contemporanei, degli allievi, dei figli».
Solo attraverso questa feconda dialettica, ogni giovane potrà diventare quel che è e potrà dire – con l’epigrafe greca che il padre ha fatto apporre sulla tomba di Jim Morrison al Père-Lachaise – che «ha vissuto secondo il proprio demone».